Giovanni Ciaravolo

Vai ai contenuti

Menu principale:

I miei racconti


Pubblicato nel mio libro "Il mare non è acqua"
stampato nel 2012 da Edizioni Tigulliana


Il castigo



Mai che fosse riuscito ad arrivare prima di lui, anche adesso che era cresciuto. Inutile fare tutto di corsa, la macchina in seconda fila e dieci minuti buoni d'anticipo; suo padre era già lì, immobile sulla panchina, ad aspettare.
La tensione del passo troppo svelto gli si sciolse in un ciabattare fiacco, come se avesse fermato l'elica per adagiarsi in grembo al mare col poco abbrivo che gli restava.
Se ne stava curvo, il mento poggiato sul manico dell'ombrello, che il bastone era roba da vecchi. Ma vecchio era suo padre, di quegli anni portati male, una gran fatica spalmata addosso. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, verso il grande spazio che faceva il mare, oltre la spiaggia, come se avesse ancora qualcosa da cercare là fuori, lui che c'aveva passato la vita. Il mare se l'era consumato, quasi corroso, segni pesanti sulla pelle raggrinzita e dentro, fino allo stoppino troppo bagnato per far ardere ancora a lungo quell'esile fiamma.
Teneva la mano del nipotino nella sua, le piccole dita sparite in quel pugno enorme, un poco deforme d'artrite, ma caldo, sicuro. Anche il bimbo guardava fisso il mare, però quegli occhi vedevano un'altra cosa, solo un enorme libro chiuso, l'emozione piena delle promesse di una bella copertina. Erano occhi umidi, il velo triste di chi ha pianto.
- Papà! -
Suo padre si voltò lentamente, guardandolo di sbieco, per poi subito tornare al mare.
- Ah, sei qui. Finalmente! -
Inutile ribattere.
- Che è successo? M'hai messo una fretta. Potevi almeno spiegarmi, accennare qualcosa... -
Attaccò.
- Tua sorella! E' un animale, una bestia... sempre la solita. Ma come si fa, a un'anima innocente... Guardalo, è ore che piange. -
Gli occhi del bimbo erano ancora fermi sul mare, ma non dovevano vederlo più oltre i lacrimoni che come a comando avevano preso a scendere lenti già oltre le guance. Niente singhiozzi, la bocca serrata in una smorfia d'orgoglio, e il resto tenerezza, quanta ne basta per il cuore di un nonno.
- Sono bambini, è normale. Bisogna lasciarli un po' sfogare, e Cristo! S'è dimenticata che combinava lei da piccola. Una peste era... una peste! -
Lui tentò di rimanere serio ricacciando indietro quel sorriso che gli montava dai ricordi, uno scherzo a tradimento della memoria.
- Che ha combinato stavolta? -
- Ma niente. Sai com'è. C'erano i fiammiferi in cucina... Pure lei però, lasciarli in giro, con un bambino per casa... poi se la prende con lui.-
Era già successo; la madre a sfaccendare, poi il fumo, la puzza e la paura, indistinguibili. S'era sempre risolto tutto con le urla di un lungo rimprovero e qualche sculaccione; un bimbo che piange e la madre che trema, per ore. Evidentemente non era bastato.
- Ma che è successo, ha bruciato qualcosa? -
Adesso il bambino guardava lo zio, gli occhi asciutti, attenti a cogliere qualche segno, anche piccolo, che gli facesse capire da che parte stava.
- Tanto casino per niente. Solo la barchetta, sai quel modellino che gli ho regalato ieri, coi cannoni, da guerra. Voleva giocare, vederla andare a fondo in fiamme, come alla tele. L'ha messa nel lavandino, si vede che non s'accendeva e allora c'ha dato un po' di spirito... -
- Ah! Pure l'alcool. E ci credo che s'è incazzata. Ma ti rendi conto? Poteva farsi male, è pericoloso! -
- Ma che pericoloso, stava nell'acqua, mica è scemo. E' lei esagerata. -
A quel punto al bambino dovette sembrare inutile sperare nello zio. Tornarono a scorrere i lacrimoni.
- Sì, va bene, va bene. ma io che c’entro? Che m'hai chiamato a fare? -
- Ecco, vedi, è che ora l'ha messo in castigo. Ma io gliel'avevo promesso. Oggi è l'ultimo giorno. -
Partì qualche singhiozzo, al diavolo la dignità. Lui guardò suo padre aspettando il resto, che così non gli bastava a capire.
- Ma il Circo, no? Domani vanno via. -
Il braccio del vecchio fece un ampio gesto, fermandosi ad indicare un punto lontano, in fondo alla passeggiata dove spuntava la cima del tendone, strisce a colori forti, seducenti.
- Non ce lo posso portare, dice. Niente leoni, è in castigo. -
- E va be'. Ho capito... Ma io? -
- Ecco, è che con lei tu, non so che ci vede in te, ma quella ti sta a sentire. Se glie lo dici tu, forse la manda giù. -
- Papà, ma che vuoi fare? -
Il vecchio s'impettì e quasi gridando finalmente lo guardò dritto negli occhi.
- Ce lo porto, ecco che faccio, ce lo porto lo stesso. Che c'entra lei con le mie promesse? -
- No, senti! - provò a ribattere - Queste sono cose serie, ne va dell'educazione del bambino, noi non possiamo immischiarci. Se ha deciso, non abbiamo il diritto... -
- Oooh! Diritto un corno. Ho detto che ce lo porto e ce lo porto! Se vuoi darci una mano bene se no quando esce da lavorare viene qui, non ce lo trova e si agita. Chissà che arriverà a pensare quell'isterica. - fece una breve pausa, studiata - Ma se ci trova te, che gli spieghi. Sai è diverso. -
Che quello fosse suo padre faticava a crederlo; indignato per un castigo al nipotino, proprio lui che ne aveva elargiti tanti, troppi, e di feroci. Lui se li ricordava ancora, tutti, ferite profonde, inguaribili, rimaste aperte con quel dolore al petto che danno certe punizioni, ingiuste e senz'appello, le proprie ragioni ignorate, calpestate per non perdere tempo a capire. E bruciavano ancora quelle lacrime troppo calde, senza il buon tepore della rassegnazione che dà la colpa.
Gli riemerse un ricordo nitido, non proprio il peggiore, solo quello che galleggiava meglio. Provò a scacciarlo per non sentirne il dolore, ma dovette cedere, lasciargli fare fino in fondo tutto il male che poteva.
Per prima riconobbe la grossa cartella di cuoio che pesava sulle sue spalle di bimbo, il buon affare d'un fondo di magazzino che per anni lo fece vergognare vicino agli zaini snelli e colorati dei suoi compagni. Ma era un peso trascurabile quel giorno, che ne portava un altro, peggiore. Stava lì dentro, tra le tasche di pelle lisa, nel diario di scuola. La lunga nota della maestra, qualche riga d'inchiostro rosso, segni freddi, precisi e falsi. Che ne sapeva lei di cos'era successo? Quand'era entrata li aveva trovati a rotolarsi per terra, una lotta sfrenata, i compagni tutt'intorno a fare il tifo, chi per uno, chi per l'altro, due scuole di pensiero zittite dal pugno sulla cattedra. Scapigliati e ansimanti s'erano subìti immobili la sfuriata della maestra. Lui aveva provato a spiegare che quell'altro era un prepotente, che se l'era presa con il più piccolo, la solita storia delle figurine, celo, celo, celo, manca e poi non voleva dargli le sue, ma la maestra non era stata a sentirlo, impegnata a scrivere sul registro. Però a modo suo fu democratica, volle il diario di tutti e due. Le lacrime non servirono, e manco biascicare tra i singhiozzi che papà lo avrebbe picchiato; due sculaccioni ti faranno bene, sentenziò. Sì, due sculaccioni, lui lo sapeva che gli sarebbe toccato, altro che Circo.
Si trascinò fino a casa e ancora sulla porta già piangeva. Sua madre s'irrigidì quel tanto che ancora poteva, prendendo il diario che il figlio le stava porgendo per motivare quelle lacrime. L'aprì, lesse la pagina un paio di volte, poi lo richiuse, poggiandolo sul tavolo di cucina, bene in vista. Disse solo:
- Stasera senti tuo padre -
Quello no! Se l'aspettava, certo, ma doveva esserci un modo, qualcosa che glielo evitasse. Se non per amore, almeno per pietà.
- Picchiami te - implorò - ma non dirlo a papà. -
Niente. Il battipanni rimase lì tra cucina e lavandino, pronto per altre occasioni. Impassibile alle preghiere del figlio gli impose di mangiare, ligia alla regola che s'era data, niente che potesse modificare certe consuetudini, i riti sacri di quella casa. Meglio non contraddirla, anche a costo di vomitare. Per l'intero pomeriggio provò di tutto per convincerla, con gli spaghetti che andavano su e giù. Le mise anche il battipanni in mano, ma l'intreccio di vimini tornò al suo posto, senz'essersi alzato nemmeno per un momento. Ancora adesso nutriva un odio feroce per il vimini; proprio non riusciva a sopportare quella cosa viscida. Ne odiava il colore lucido, freddo, l'odore aspro, il rumore che faceva ad usarlo, che fosse una sedia o un innocuo baule, quello scricchiolio che lui sentiva come un fischio, il sibilo sinistro del battipanni che fendeva l'aria prima di colpire.
S'era fatta sera quando la lunga, estenuante attesa si frantumò all'urlo del citofono. La rassegnazione gli aveva fatto credere d'essere pronto, e invece no, fu devastante: la testa, lo stomaco, il cuore, tutti giù nel vuoto, risucchiati in una voragine enorme, il respiro che manca, la nausea e il sudore copioso alle mani torturate da grossi spilli che pungevano ogni nervo, fino a bloccarlo, rigido come pietra.
Suo padre non fece domande, solo aspettò immobile, in piedi di fronte alla tavola spoglia, quand'era ora di cena. Nemmeno la tovaglia su quel marmo bianco, solo un diario aperto che la donna prese per darlo subito al marito, il braccio steso e lo sguardo fisso sui fogli, egualmente rigidi. L'uomo lesse una volta sola, lentissimo, per via della quinta elementare, ricordo lontano. Non mostrò alcuna reazione, solo chiuse il diario e lo rese alla moglie. Sedette al suo posto di capotavola e aspettò muto che fosse apparecchiato.
Mangiarono in silenzio, anche la televisione spenta, solo il fastidioso tintinnare metallico delle posate. Finalmente finì, con l'ennesimo bicchiere di vino tracannato d'un sorso, il colpo del vetro sul tavolo e un rantolo di tosse a schiarirsi la voce:
- Gianni! - Chiamò suo padre, come se stesse in un'altra stanza. Lui cercò da qualche parte il coraggio di guardarlo negli occhi. Se fosse riuscito a trattenere le lacrime sarebbe stato tutto più rapido, che suo padre odiava veder frignare. Un uomo, diceva, non sa piangere.
- Gianni, per favore, vai nello sgabuzzino. - pausa - Appesa c'è la mia cintura, quella nera. - pausa -  Portamela. -
La voce calma, quasi gentile, una carezza col coltello in mano. Lui trovò chissà dove la forza di alzarsi, di uscire dalla cucina, attraversare tutto il corridoio fino in fondo, un passo alla volta, violentandosi le gambe che non volevano andare, aprire quindi la piccola porta e accendere la luce. La cinghia stava lì, bene in vista, lucida di cuoio buono. Suo padre non l'aveva mai indossata, non era quello l'uso che ne faceva. Stava lì per monito, rischio perenne, e perché funzionasse, ogni tanto doveva usarla, a prova che non fosse solo una minaccia.
Prendendola la carezzò, quasi a rabbonirla, poi un passo alla volta, con la stessa fatica, tornò in cucina e ricacciando indietro le lacrime come fossero una maledizione consegnò la cinghia al padre che lo ringraziò con un sorriso vero, niente di ironico.
- Vi chiamo quando ho finito - ordinò l'uomo spalancando la porta della cucina. Sua sorella uscì subito, quasi di corsa. La madre esitò, giusto il tempo di una raccomandazione:
- Non lasciargli segni, ti prego, non lo segnare in faccia. -
Era quella la paura di sua madre, che si vedessero i lividi, difficili da nascondere, da giustificare a scuola, che poi la gente parla. La scelta del vimini era per questo scientifica, bruciava quanto basta ma non lasciava segni, solo qualche rossore, già dissolto la mattina dopo. Geniale, ma roba da femminucce.
- Va’, va’; non ti preoccupare. -
Quello bastò a farla sparire dietro il vetro opaco, un'ombra confusa, tanto lontana già a pochi passi nel corridoio.
La porta si chiuse e la chiave girò due volte nella serratura, che le donne non si sa mai. Poi cominciò.
Lui era già pronto, le braccia alte incrociate sul viso a proteggere almeno quello, sua madre accontentata. Stette così, immobile al centro della stanza, ritto in piedi finché le gambe tennero, poi in ginocchio, senza provare a nascondersi sotto il tavolo o dietro le sedie, che sarebbe servito solo a prenderne di più. Gli occhi secchi serrati forte, i denti stretti e il fiato trattenuto quanto poteva, perché con l'aria non uscisse qualche lamento.
La cinghia fendeva l'aria, un sussurro per salire, un sibilo per abbattersi e il buio che s'arrossava, lampo cupo subito seguito dal dolore che arrivava chissà da dove, il corpo confuso da un unico tormento.
Gli sembrò che non finisse mai, fino a quella preghiera recitata da dietro il vetro:
- Basta papà, basta. Così l'ammazzi -
Cara sua sorella, piccola cara, si prese anche una sberla dalla madre, che sapeva lei quando intervenire. Ma ormai la foga era svanita, la cinghia sussurrò per l'ultima volta ma s'afflosciò senza colpire. Riaprì gli occhi solo quando sentì la chiave scattare due volte. Sua madre gli era già addosso, un fulmine. S'era inginocchiata e gli teneva la testa tra le mani, scostandogli i capelli con gesti lenti, che per un attimo gli sembrarono carezze.
- Niente, non ti ha fatto niente, solo un graffietto qui sotto l'occhio. -
Ecco, era tutto a posto, il resto non si vedeva, nemmeno adesso che erano anni che se lo portava dentro.
Ora quello stesso uomo, solo più vecchio, fremeva indignato per un castigo al nipotino, gli ormeggi rinforzati per una bava di vento, quand'era rimasto in mare con certe tempeste. Ridicolo. Tanto da fare rabbia, come il silenzio che stava ostentando, nell'attesa seccata di una qualche replica, non perché gli importasse o potesse convincerlo a cambiare idea, ma solo per chiudere il discorso, una questione di turni.
Si rese conto che finalmente poteva approfittarne, che a pensarci bene qualcosa da dire a suo padre ce l'aveva per davvero: perché non farlo ora, il timone in mano e la rosa dei venti lì davanti, tutta per lui. Erano anni che faceva le prove, doveva solo trovare l'occasione buona, l'aggancio giusto per inchiodarlo a un dettaglio che lo costringesse a riflettere, compiendo il miracolo di fargli ammettere quanto aveva sbagliato con lui. Raccolse tutto il coraggio che poté e girò la ruota una, due, tre volte. Si lanciò in quella che aveva immaginato una lunga, definitiva domanda, ma da subito non gli ressero le parole, quello che aveva così chiaro in testa a tradurlo in gradi perdeva vento, le vele sgonfie, in una lenta, insostenibile rotta. Non riuscì a finire. Era ancora alle premesse quando il padre, seccato, s'alzò, la mano del nipotino ben stretta nella sua. Gli voltarono le spalle avviandosi con passi diversi, uno lento, pesante ma sicuro, l'altro dapprima incerto, poi, quando trovò il ritmo, spedito in un trotterellare allegro. L'ultima cosa, senza voltarsi:
- Glielo riporto per cena. -
Non ebbe la forza di dire altro, solo li guardò andar via, verso il tendone colorato, una vecchia nave con le vele piene di vento buono, roba che in mare fa piacere vedere, chissà perché. Lui rimase così, impalato a fissarli con un sorriso inevitabile, sparso sulle labbra e dentro, ben oltre ogni rancore.

Giovanni Ciaravolo © Copyright 2012 Tutti i diritti riservati

Torna ai contenuti | Torna al menu