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Pubblicato nel mio libro "Il mare non è acqua" stampato nel 2012 da Edizioni Tigulliana
Nell'Antologia di Narrativa "Concorso degli Assi" Terza edizione 2008
Carta e Penna Editore -
Nella Raccolta Antologica "Vivere il Mare" Tredicesima edizione 2009
La scelta
Suonò. Lo ricordo bene quel trillo forte, la vecchia sveglia a molla di papà; ce l'ho ancora in testa, come una condanna. Scattai a sedere sul bordo del letto, gli occhi sbarrati per mascherare il sonno di una notte agitata. Mio padre entrò in camera ancora in mutande. A trovarmi sveglio gli si schiarì un po' quel muro nero che gli veniva in faccia ogni volta che aveva a che fare con me.
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Gli risposi di sì senza voce, un soffio che non sentì, tanto non aveva importanza, che non c'era una scelta da fare.
Dalla porta s'affacciò mia madre, un altro muro; questo era grigio e diroccato, quello che si usa ai funerali per fare bella figura. Entrò con una pila di stracci che posò sul letto.
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Papà uscì, riservandole uno sguardo carico di disprezzo.
Mamma prese qualcosa dai cenci che aveva portato.
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Era di cotone ruvido, ingiallito e liso. Puzzava. Mamma l'aveva di certo lavata, figurati, è che più forte del sapone era rimasto l'odore del peschereccio, quello che si portava a casa papà, quando tornava. È un misto di gasolio, di pesce e di sentina. A tenerli insieme dev’essere il sale sporco, quel che resta addosso del mare quando ci si suda dentro. Tutto aveva lo stesso odore, lo stesso grado d'usura. Tutto troppo corto, che mio padre era un po' più basso di me. Solo le calze andavano bene, mia nonna le faceva sempre troppo grandi e troppo spesse, che ci volevano due numeri in più di stivali, però con quelle che vendono, anche a pagarle care, in mare ci geli.
Quando mio padre liberò il bagno, toccò a me.
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Stavo ancora paciugando con l'asciugamano che già brontolava la caffettiera, il corridoio saturo dell'aroma riservato ai grandi. In cucina due tazze, e l'altra non era per mamma. Non me l’avevano mai fatto neanche assaggiare, ch'ero ancora troppo piccolo, mai come il vino, i soldi e il fumare, anche se quello qualche tiro me l'ero già fatto di nascosto, o almeno così m'aveva fatto credere mia madre.
Era troppo caldo e troppo amaro, però lo mandai giù tutto, mezza caffettiera da sei. Ci ho messo anni prima di tornare a berne, senza che mi venisse da vomitare.
Sulla porta mamma mi si parò davanti a ravviarmi i capelli con qualche carezza veloce.
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L'ultima le rimase a mezz'aria.
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L'ascensore restò al piano, le scale di corsa, che ad arrivare dopo gli altri si fa brutta figura. Non m'ero mai seduto davanti sul 128, ma quella era la notte delle prime volte, tutte insieme. Il viale lo feci con gli occhi chiusi dal sonno, il lungo balenare delle luci dei lampioni. Li riaprii in banchina, al cricchiare del freno a mano.
Le poche luci rivolte al mare rendevano meste le sagome delle barche da pesca in rada nel porto, sparse nel bel disordine spontaneo dei rami d'un albero di bosco.
Vicino alla scaletta d'approdo delle lance c'erano due vecchi ad aspettare. Mio padre brontolò qualcosa rivolta a me, col tono d'una maledizione. M'aspettavo una presentazione, o almeno un saluto, invece niente, solo il mio buongiorno inutile mentre gli altri salivano sul battello, ch'era tardi. Si mise ai remi uno dei due vecchi, l'altro era il comandante. A mio padre non toccava perché era il motorista, e io non sapevo manco tenerlo in mano un remo. L'imbarazzo di papà mi pesò addosso per tutto il tragitto, neanche tanto breve, che la barca era tra le più lontane, dove stavano quelle grandi. Era un legno d'una ventina di metri, possente e tozzo, coi segni d'ascia ancora sul fasciame, nemmeno un filo di stucco, solo pittura spessa e in parte scrostata; doveva essere stata bianca. Quel vecchio peschereccio poco lontano dallo scintillio degli yacht sembrava uno sbaglio, la tuta sporca d'un operaio finita nell'armadio delle pellicce.
Uno per volta salimmo a bordo, solo il marinaio s'attardò a fissare le cime d'ormeggio sulla lancia. Non si dissero una parola, ognuno a fare il suo senza bisogno di ordini. Mio padre scese in sala macchine a mettere in moto; m'affacciai dall'osteriggio per vedere. Il motore era enorme, di quelli antichi coi bilancieri a vista. Aprì le prese a mare e il circuito del gasolio, poi piantò un palo di ferro sul grande volano e puntandosi sulle gambe lo girò a mano fino a trovare il punto di partenza; tolse il palo e aprì le valvole delle bombole dell’aria. Ne uscì un sibilo sordo. Papà s'aggrappò con tutte e due le mani a una leva di bronzo e la tirò a sé: il fischio si fece acuto, qualche sbuffo a vuoto, poi un colpo, un'altro e quel mostro d'acciaio prese vita. Cominciò a vibrare tutto, forti scossoni che arrivavano allo stomaco. Il rumore era tanto che parlare bisognava farlo vicini e quasi gridando.
Papà risalì in coperta e corse verso prua; un gesto del comandante e insieme al marinaio di poppa mollò le catene. Un lungo rotolare di ferro, poi il tuffo in mare e l'invertitore che ingrana indietro fino a dov'è più largo per manovrare, allora elica avanti piano, per doppiare il faro del porto, mentre il battere dei pistoni accelerava per spingere la prua diritta verso qualche punto lontano sull'orizzonte.
Ero rimasto immobile per tutto il tempo che c'era voluto, un'enormità. Papà tornò da basso in macchina a dare olio a quel che si muoveva, mica come adesso, tutto automatico, anche la nafta bisognava pomparla a mano. Quando tornò in coperta provò a essere gentile.
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Cercai di seguirlo, ma persi subito l'equilibrio. Niente stava fermo, in un moto liquido, imprevedibile. M'afferrò appena in tempo.
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Mi fece vedere: sembrava facile, le ginocchia pronte a piegarsi per seguire l'onda, i piedi lontani a puntarsi in coperta e il tronco un po' sporto in avanti come a sciare. Feci solo un paio di passi che già dovetti aggrapparmi a lui per non cadere. Scoppiò a ridere. Menomale.
Quasi mi trascinò per farmi salire gli scalini della timoniera. Appena dentro ripetei buongiorno, non mi venne altro.
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Il sorriso del comandante era largo, troppo per essere sincero.
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Non riuscivo a rimanere in piedi. Sembrava di stare sulle spalle di un ubriaco che continuava a bere. Le luci del porto s'erano fatte piccole, confuse tra le altre, tutte deboli candele che al primo colpo di vento avrebbero potuto spegnersi. Davanti il buio spezzato in due; sotto il mare, sopra tutto il resto, che fosse terra, cielo o qualche nave bisognava capirlo da un debole gioco d’ombre che mi era totalmente sconosciuto. Ero smarrito e cominciavo a stare male. Il caffè stava facendo il suo lavoro su e giù per lo stomaco. Avevo come un vuoto dentro che mi risucchiava le viscere in un cadere infinito.
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Mi accovacciai sul secondo gradino, cercando d’incastrarmici. La barca sbandava paurosamente, prima su di un fianco, poi sull’altro, così tanto dal farmi credere più d’una volta che fossimo sul punto di rovesciarci. Le onde non si vedevano arrivare, solo si sentiva il colpo improvviso e la barca tremare tutta, quasi si fosse spaventata. Provai a puntellarmi meglio, aggrappandomi a quel che c’era, ma non riuscivo a stare fermo. Eravamo perduti, ne ero certo. Eppure a guardare dentro sembrava tutto a posto, normale. Papà era seduto su una panchetta col comandante a chiacchierare tranquillamente; il marinaio non diceva una parola, gambe larghe e mani ben salde sul timone. Lo sguardo gli correva tra la bussola e l’orizzonte, la certezza che se ci fosse qualcosa da vedere lì davanti, lui l’avrebbe vista.
M’aggrappai a quell’immagine rassicurante riuscendo a non urlare che mi portassero indietro.
Durai ancora poco. A un tratto la vertigine che avevo dentro divenne insopportabile, qualcosa d’incontrollabile che saliva in gola coi primi conati. In qualche modo m’alzai e feci i pochi passi che mi separavano dal bordo della murata. Mi sporsi quel po’ che bastava e versai il mio primo tributo al mare. Fu amaro come una sconfitta e lungo, tanto che sembrava non dovesse finire mai, poi smise. Menomale. Solo allora m’accorsi di papà che mi reggeva tenendomi forte la giacca da dietro.
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Mi riportò alle scalette continuando a tenermi per la giacca.
Ci vollero ancora un paio d’ore di navigazione. Vomitai altre due volte, senza l’aiuto di mio padre. Poi il comandante smise di chiacchierare, s’alzò, aggiustò per bene gli occhiali sul naso e accese tutte le luci, scatti secchi sul quadro elettrico, come comandi precisi. Mio padre corse di poppa a legare il sacco della rete, mentre il marinaio armeggiava con dei grossi tavoloni di legno.
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Obbedii, cercando di farmi piccolo in un angolo da dove potevo vedere. Non ci capii niente. Era tutto molto complicato. Appena il motore andò al minimo il marinaio gettò una lunga cima in mare e la rete cominciò a scendere in acqua, poi mollarono dei freni al verricello per filare in mare delle grosse cime, decine di metri. Finite quelle le agganciarono ai tavoloni che andarono in mare anche loro, attaccati a dei cavi d’acciaio. Altri freni mollati, motore a tutta forza e questa volta i metri filati furono centinaia, parecchie centinaia.
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I freni stretti e la barca a tirare, come un bue l’aratro.
Cominciava a fare giorno. L’alba così non l’avevo mai vista. Rimasi fisso a guardarla, scordando per un po’ quanto stessi male. Non è come in terra, che la vedi da lontano. Ti ci ritrovi immerso, spettatore gettato sul palco quando il mare ruba la scena. Non gli basta rifletterla, la reinterpreta. Ne fa luce che danza con le onde. A volte gli viene dolcissima, altre terribile, e tu sempre provi a indovinare come sarà e non impari mai.
Papà arrivò con un secchio e una coperta.
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Mi portò giù per lo stretto boccaporto di poppa in un locale appena illuminato da un paio di lampadine. Sulle pareti stavano appese due file di cuccette, troppe per quanti eravamo, ma quelle barche un tempo avevano anche dodici persone d’equipaggio. Ora ne servono meno, colpa della tecnologia. Non è raro che adesso a pescare ci vadano solo in due, ma quella è colpa dei conti a fine settimana; a forza di leggi, divieti e limitazioni resta poco da spartire, così non potendo aumentare il dividendo si riduce il divisore, è matematica della sopravvivenza. Il risultato è rischiare la pelle, che il mare non fa sconti a nessuno.
Di poppa il fasciame piegava come un arco steso, basso e stretto. Di prua la sala macchine, niente a dividere, né paratie né porte da aprire, nel caso non ci fosse tempo da perdere. L’aria era satura di fumo e il rumore insopportabile, però c’era un bel calduccio. Era tutto umido, materassi, lenzuola e cuscini; a toccare il legno ci si bagnavano le dita. Papà stese la coperta asciutta su di una cuccetta in basso e mi ci fece stendere, poi mise il secchio lì di fianco.
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Non serviva così grande, che non avevo più niente nello stomaco, solo saliva e bile, verde e amarissima. Però mi fece bene sdraiami, riuscii anche a dormire un po’. Avevo gli occhi chiusi quando tornò mio padre.
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In qualche modo mi rimisi in piedi. Mi dette i pantaloni di una vecchia cerata e un paio di stivali; li infilai e lo seguii in coperta. C’era un sole abbagliante, ma il mare era ancora mosso, sembrava bollire. Al verricello era tutto pronto. Papà mi spiegò che dovevo girare una grande ruota per guidare i cavi a raccogliersi ordinatamente nei rulli. A sentire lui era facile. Fermarono l’elica e cominciarono a virare. Provai, ma era dura. Mi ci appesi e cominciò a muoversi.
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Ero senza forze e guardare i cavi avvolgersi aumentava il senso di vertigine che non mi lasciava da quando ero salito a bordo.
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Mi scansò con una manata sulla spalla e prese a girare lui.
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Riprovai, ma era davvero troppo pesante per quel che m’era rimasto. Papà mi dette uno spintone più forte e bestemmiando tornò a girare quella maledetta ruota.
Alla fine dei cavi tornarono a bordo i tavoloni, da dove presero due cime che virarono al verricello fino alla rete. Issarono a bordo il sacco col bigo, lasciandolo appeso per qualche istante, gonfio e pesante, le speranze di tutti lì dentro, sospese ancora per un po’. Quando l’aprirono una valanga di pesci riempì la poppa. Corsero a vedere, pure io.
Era tutto un fremere, vita sorpresa di dover smettere. Mi fecero una gran pena, con quell’affannarsi inutile, e nessuno che sembrava curarsene, affaccendati nelle loro cose, indifferenti. È che i pesci non gridano, muoiono in silenzio; sbattono un po’, poi smettono. Ci si abitua presto, tutti, o quasi.
Papà parlava col comandante. Mi sembrò di capire che non fossero per niente soddisfatti. I pesci erano tanti, ma di una specie di poco valore. Succede così, le qualità pregiate sono scarse ma le pagano bene; le altre che invece abbondano e sono buone lo stesso, la gente non le compra; così costano poco e i pescatori non ci guadagnano niente.
Il sacco fu rilegato, la rete gettata in mare e rifatto tutto il resto della manovra per calare. Me ne stetti in un angolo, attento a non guardare verso dov’era mio padre. Finito quello presero a fare il lavoro vero. Portarono a poppa casse e ceste per la scelta del pescato. Può durare ore. Papà mi si avvicinò.
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Lo facevano in ginocchio. Si misero carponi sul pagliolo dov’era il pesce e presero a dividerlo per qualità e grandezza. Mi fecero vedere, questo qua, quest’altro là, quelli piccoli e quelli grandi … facile. Solo che chi li aveva mai visti i pesci; ne prendevo uno e guardavo nelle cassette cercando quelli uguali. Certi si somigliavano, ma andavano separati, altri andavano insieme, anche se erano diversi.
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Stare così piegato mi aumentò la nausea. Presto dovetti vomitare ancora. Avevo perso il conto. Il marinaio si mise a ridere, papà scrollò la testa, rassegnato.
Dopo aver scelto bisognava lavare e incassettare. Mi fecero tenere la manichetta, l’acqua pompata a forza dal mare. Qualche pesce sbatteva ancora, ma i più s’erano arresi. Le casse pronte furono portate in ghiacciaia, un ampio locale sottocoperta a centro barca, un ventre insaziabile; le poche volte che l’avevano riempito erano diventate storie da raccontare in banchina.
Mio padre sparì in cucina con dei pesci che aveva messo da parte. Mi stesi in coperta verso prua, dov’era asciutto, un braccio sotto la testa a fare da cuscino. Ben presto mi raggiunse il profumo della zuppa che cuoceva. Mi si rivoltò lo stomaco, ma riuscii a rimanere sdraiato respirando profondamente.
Papà venne a chiamarmi:
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Feci cenno di no con la mano.
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Il comandante mi spiegò sarcastico:
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La cucina era lunga e stretta, al centro un tavolaccio con due panche. Le ciotole di spaghetti erano tre, il comandante mangiava a timone. Mi sforzai di mandar giù. Era buona. In terra non viene così. Per quanto il pesce sia fresco non è mai come appena pescato. Olio e pomodori, nient’altro. Dopo gli spaghetti il pesce cotto nel sugo. Tante spine, che è quello più saporito. La gente non lo vuole più, meglio quello della Findus, senza lische e già pronto. Poi non sa di niente, ma è comodo, come il mondo che stanno costruendo, omologato e insipido.
Dovetti finire di mangiare all’aperto che in cucina mi girava la testa, gli odori erano troppo forti e il rollio diventava insopportabile senza l’orizzonte a fare da punto di riferimento. Papà chiamò per il caffè. Mi feci coraggio.
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Rinunciò. Menomale.
Stetti meglio per un po’, fino a quando non riconobbi ancora quel movimento allo stomaco. Feci appena in tempo a sporgermi che di quel pranzo non mi rimase niente. Mio padre gettò quel che rimaneva del suo caffè in mare e m’indicò la poppa con la mano aperta.
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Volevo digli che no, potevo farcela, che stavo un po’ meglio, ma non ce la facevo proprio. Mi tremavano le gambe e le braccia, in gola avevo il fuoco e i crampi non smettevano. Barcollando arrivai al boccaporto e sceso mi stesi in cuccetta. Il secchio era ancora lì. Qualcuno l’aveva svuotato. Piansi. Non era per come stavo, era perché non riuscivo. Non riuscivo a reagire, a fare qualcosa, non riuscivo nemmeno a provarci. Non valevo niente, nemmeno mozzo su un peschereccio. Aveva ragione papà.
Quando scese indossava la cerata. Finsi di dormire. Indugiò per un po’, poi lo sentii risalire in coperta. Menomale. Salparono senza di me, non che servissi a qualcosa. Provai a immaginare che stessero facendo, ma da basso era ancora più confuso, e non ricordavo bene quel che avevo visto. Poi il motore prese ad andar forte e non cambiò più, stavamo rientrando. Guardai l’orologio, mi sembrò fermo, poi la lancetta dei secondi finalmente mosse. S’era fatta sera. Aspettai, come facevo da ragazzino giocando a nascondino; uscivo solo quand’ero sicuro che non mi cercavano più. Libero! Solo che il gioco era finito da un pezzo. Però non mi avevano preso.
Uscii che il porto era vicino. Si vedevano chiaramente gli alberi delle barche a vela dietro la diga foranea, le case arroccate sulla costa, attaccate l’una all’altra come a farsi coraggio. Realizzai allora quanto va piano una barca da pesca, potente nel trainare ma goffa quando prova a correre. Di poppa i gabbiani si litigavano i posti migliori, in caso gli uomini avessero buttato via ancora qualche pesce. Quel che fanno coi pescherecci dovrebbe essere mendicare e invece è danza, gridare e invece è canto. Si contendono gli avanzi con dignità, nobili a mensa.
Entrai in timoniera come fossi trasparente, nessuno che sembrasse accorgersi di me. C’erano tutti e tre, nella stessa posizione di quella notte, solo un po’ diversi. Papà e il comandante seduti sulla panchetta si raccontavano storie in dialetto, ridendo sguaiatamente. Anche il marinaio aveva le rughe distese a disegnargli una specie di sorriso; non guardava più la bussola, bastava la costa a orientarlo. L’altra cala doveva essere andata bene, scampi mi sembrò di capire. Menomale, altrimenti avrebbero creduto che portassi male.
Entrammo in porto al minimo, dando il passo a un traghetto stracolmo di turisti e a un paio di motoscafi fiammanti; sul lungomare la gente passeggiava benvestita guardando le vetrine delle boutique. Veniva voglia di chiedere permesso, cappello in mano.
La manovra non fu complicata, prua dritta sulla lancia e colpo indietro quand’era di fianco. Il marinaio ci saltò sopra, slegò le cime d’ormeggio e le passò a bordo. Le virarono al verricello fino alle catene che avvolsero sulle bitte, una di prua, l’altra di poppa. Fatto. Tutto di corsa, come il trasbordo del pesce sul battello, che al mercato prima s’arriva e meglio si vende. Il marinaio ai remi, il comandante ritto di prua, le mani ai fianchi, orgoglioso. Senza ancora vedere i pesci si può capire com’è andata la pesca dalla postura di chi sta sulle lance; c’è sempre qualcuno con gli occhi bassi. È il momento più difficile quello, la vergogna di portare poco, poco all’armatore, poco alla famiglia, poco per gli altri, sempre pronti a criticare.
Papà rassettò qualcosa, cime ceste e cassette vuote. Non mi disse niente, non mi guardò neppure. Poi finalmente tornò il marinaio e insieme riordinarono la rete. La ripassarono tutta con l’aiuto del bigo, un pezzo alla volta issata in aria per vedere se c’era qualche rottura, qualcosa da rimettere a posto. Finito quello papà spense il motore, chiuse tutto e ci cambiammo da basso a poppa. Loro appesero la roba da lavoro in sala macchine per farla asciugare, la mia papà me la fece mettere in un sacchetto, da riportare a casa.
Salimmo sulla lancia, il marinaio ancora ai remi. Fu lui ad aiutarmi a salire in banchina, mi prese un braccio e mi tirò a sé, poi se ne andò, il passo ciondolante di chi ha una vita di mare nelle gambe. Per tutto il tempo non gli avevo sentito dire una parola. Papà s’avviò alla macchina. Lo seguii. Salimmo muti e restammo così per tutto il viaggio, fino al citofono. Mio padre fece i soliti due squilli, ma non aveva ancora finito il secondo che il portone s’aprì, come se mamma fosse lì ad aspettare. La porta era socchiusa, entrammo. Mia madre si fece trovare in cucina a spadellare, il sorriso trattenuto, la tavola apparecchiata.
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Prima papà. Io sedetti ad aspettare. Il sorriso di mamma s’era già spento. Conosceva quel tono, l’espressione cupa di quando litigavano, di quando papà era arrabbiato. Succedeva spesso. Non mi chiese niente, restò impegnata ai fornelli. Quando finì mio padre toccò a me andare in bagno. Parlarono sottovoce. Cercai di fare piano con l’acqua per capire qualcosa, ma sentivo solo bisbigli. Niente di buono.
Tornai che i piatti erano già pronti, pasta al forno con tanta besciamella, come piace a me. Papà non mi aveva aspettato, mangiava a testa bassa, il bicchiere del vino già quasi vuoto. Non avevo certo appetito, ma mi sforzai di finire tutto. Nessuno diceva niente, aria pesante, pronta a esplodere. Successe quando mamma provò a chiedermi se ne volevo ancora. Non ebbi il tempo di rispondere.
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Fabio, tre mesi. Era capitato, dopo tanto tempo. Papà non lo voleva. Diceva che non c’erano soldi, che come si faceva a mantenerne un altro. Mamma l’avrebbe tenuto, ma dava ragione a papà. Proposi che se il problema erano i soldi avrei lavorato, tutto lo stipendio a casa, per me pazienza, avrebbe studiato lui al posto mio, all’università l’avrei fatto andare. E poi imparare un mestiere mi sarebbe servito. Mi presero alla lettera. Ma era bello Fabio, nessun rimpianto possibile.
Mamma s’era messa a sparecchiare, piangendo.
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Ubbidii.
Papà buttò giù un altro sorso.
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Non ci misi molto a scegliere, meno di quel che serviva a pensarci.
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Allora un pescatore guadagnava molto più di un meccanico. Mio padre smise di gridare.
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Silenzio. Anche mamma aveva smesso di piangere.
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Papà nemmeno la sentì.
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Mi si avvicinò a un palmo dal viso, il dito puntato.
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Papà tornò a sedere, versandosi un altro bicchiere di vino.
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Discorso chiuso. Menomale.
Quella sera mamma mi fece trovare sul comodino la pancera di lana. Piegata per bene, nel buio della stanza, subito m’era sembrata un libro. Per un attimo avevo sperato che almeno lei capisse. Per un attimo, uno solo.
Giovanni Ciaravolo © Copyright 2008 Tutti i diritti riservati