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Pubblicato nel mio libro "Il mare non è acqua" stampato nel 2012 da Edizioni Tigulliana
e nella Raccolta Antologica "Un mare da vivere una terra da amare"
Edizioni Tigullio-
Risacca
Rimase incantato a fissarlo, gli occhi attenti e la bocca schiusa, appena piegata in una smorfia per quell'acqua sporca, dove proprio non riusciva a riconoscere il mare, che pure doveva esserci, tra chiazze oleose assurdamente iridescenti e ogni genere d'immondizia che vi galleggiava compatta, radunata lentamente dalla poca corrente, come un gregge fetido. Gli era difficile credere mare quella brodaglia puzzolente dopo averlo conosciuto in tutta la sua purezza, là dove la terra è solo un ricordo e l'orizzonte è un cerchio perfetto, definito dal cielo sull'acqua e mai interrotto. Si può arrivare ad odiare quel difetto di forme, il silenzio che l'avvolge ed il lento scorrervi del tempo, ma se il mare ti si incrosta addosso come fa con i relitti che vi giacciono deformi, ricoperti d'alga e di corallo, non c'è più molto da scegliere; è come innamorarsi, perdutamente. Dev'essere un fatto genetico, si nasce col mare nel sangue, magari tra le montagne, ma col destino di marinaio ben marchiato da qualche parte, dove brucia di più. Gli altri no, nel mare ci si possono tuffare e sguazzarci dentro, ma non succede niente, ne escono quando vogliono, che a loro basta asciugarsi per toglierselo di dosso. Si vede che hanno l'anima a tenuta stagna.
Su quella banchina era l'unico ad ascoltare la debole risacca, il mare unto d'olio che moriva lungo il molo di cemento. Il resto del gruppo nemmeno s'accorgeva di quell'agonia, tutti presi a far casino in un fremere impaziente di gesti e di parole, tra i colori delle divise addobbate a festa e le risate sguaiate, trascurabili avanzi della notte passata a festeggiare il congedo. Sembrava gioia quella dei suoi compagni, o cos'altro non sapeva, una piacevole ebbrezza che coinvolgeva tutti tranne lui, rimasto un poco in disparte, smarrito fra tanta esuberanza che lo costringeva ad unirsi sottovoce ai cori che dal gruppetto si levavano improvvisi.
Nell'attesa rigirava nervosamente tra le mani un pacchettino rosso col fiocco già sgualcito. C'era qualcosa dentro, ma piccolo, leggero, da sembrare tutta carta. Se lo ficcò in tasca come a nasconderlo, appena scorse la corrierina che veniva a prenderli.
Alla Stazione furono interminabili saluti, promesse d'improbabili incontri futuri, abbracci e ancora cori, dove qualcuno addirittura si commosse. Poi cominciarono a raggiungere i binari dividendosi in piccoli gruppetti che assunsero identità regionali, in una selezione per dialetto e pronuncia che rese più tangibile il distacco, facendone prendere coscienza anche ai più confusi.
Il treno arrivò incredibilmente in orario ma lui non aveva nessuna fretta per apprezzarne la puntualità; vi salì con calma e con calma occupò il primo posto libero, sistemando il bagaglio con esagerata meticolosità, imponendosi di non pensare per fare il vuoto nella mente e rendere l'attesa sopportabile. Fu inutile. Lo stomaco gli si rivoltò appena i vagoni iniziarono a muoversi con un sussulto sgraziato, improvviso.
Il viaggio era di quelli lunghi che risalgono la penisola verso Nord e sembrano più pellegrinaggi che biglietti pagati alle Ferrovie. Forte e stantio l'odore d'uomo impastava l'aria, dandole un sapore agro ed insieme dolciastro, pesante da respirare, subìto e prodotto da chi, ammassato nei vagoni del treno a lunga percorrenza dimentica la sua condizione d'uomo e rispolvera l'antico mestiere di bestia. Cravatte slacciate penzoloni, barbe malfatte e calzini indecenti erano ovunque i miseri avanzi della compitezza civile di ragionieri, liberi professionisti e onesti operai. Nella calca del corridoio il ragazzo in divisa occupava rassegnato i suoi pochi centimetri di spazio, curvo sulle spalle come se portasse addosso tutti e diciotto i mesi fatti in Marina, che sono un bagaglio piuttosto pesante nei nostri tempi pieni di cose facili.
Nell'afa d'Agosto l'uniforme gli si appiccicava addosso fradicia di sudore, ma lui s'ostinava a portarla per l'ultima volta, anche se gli altri congedanti erano corsi ai cessi della stazione per levarsela, impazienti di tornare in abiti civili, quasi che temessero di perdere l'occasione. Ma i dolori fanno parte di noi, sono tempo nostro che a buttarlo via è sempre perdere qualcosa. Tornare a casa in divisa era per lui come esorcizzarla, dire a se stesso che non l'avevano piegato, nauseandolo fino a fargli mettere due dita in gola per vomitare in fretta quel passato. Era orgoglioso del suo stomaco.
Quand'era partito s'erano sperticati ad assicurargli che sarebbe tornato uomo, uno di quelli con le palle, e invece no, gli avevano insegnato a sparare, riducendogli la morte ad un'esercitazione di tiro, mentre per il resto che s'arrangiasse, tanto lo avrebbe imparato da solo. Era un po' come aveva fatto suo padre per insegnargli a nuotare: un giorno, uno qualunque, se l'era portato al largo su un gozzo a remi. Gli aveva anche spiegato per bene come si voga, facendogli provare qualche colpo, poi all'improvviso l'aveva fatto alzare in piedi, l'aveva abbracciato, poi senza aggiungere altro, gettato in mare. Quindi con calma aveva ripreso i remi, e dati una decina di colpi s'era messo tranquillo ad aspettare. L'idea deve essere la stessa: chi resta a galla supera l'esame, mentre agli altri tocca bere amaro. Comunque alla fine danno il congedo a tutti, un piccolo pezzo di carta a regolare ricevuta di quell'inestimabile pezzo di vita.
L'improvviso stridere di freni gli interruppe il flusso dei pensieri che tornarono presente, sguardo sul finestrino dove stava scorrendo un paesaggio finalmente noto. Riconobbe qualche casa, la sagoma di certi monti e, inconfondibili, le scogliere, terra ardita a sfidare il mare. In quel punto i binari attraversano una bassa collina appena abbozzata, uno sprazzo di luce tra le voragini nere di due lunghe gallerie. Poco più in basso il paese, un fiume di case che s'affacciano sulla costa, delta immobile nell'attimo che precede il gran tuffo in mare.
Il suo viaggio finiva in quel posto, tra il vociare di chi scendeva e le imprecazioni di chi doveva scostarsi. Stordito dalla ressa riuscì a scendere, ma poté fare solo pochi passi sul marciapiede fra i binari, poi si fermò confuso, cercando qualcosa che avrebbe dovuto esserci e che invece incredibilmente mancava. Provò a cercare con più calma ma non trovò traccia di quella felicità che nella solitudine delle interminabili ore di guardia aveva tante volte immaginato per il suo ritorno a casa, fino a credere d'averne sentito il gusto, dolce di languore, aspra d'emozione e frizzante d'impazienza, come vino novello carico di promesse. Invece niente, la mancanza di sapore dell'acqua distillata. Rassegnato s'avviò col vuoto nel cuore, un vuoto precario, di chi aspetta ostinato qualcosa che lo riempia.
La piccola stazione era quella di sempre, pulita e tranquilla, col suo traffico regolare ignorato dalla gran massa di vacanzieri dalle auto ogni anno sempre più belle, impegnati in una passerella interminabile, dove ognuno ostenta ciò che vorrebbe essere, appagandosi dell'apparire, quasi che ci si possa levare la fame facendo finta di masticare. Tra rotaie ed autostrade non sono comunque riusciti a stravolgere quella cellula di mondo, come se fosse refrattaria a tutto ciò che le giunge dall'esterno, tanto che entrandovi si ha l'impressione di immergersi in un mondo parallelo, una bolla di spazio senza tempo dove ogni cosa trabocca di vita, ma di una vita fossilizzata, statica. Tutto è nuovo e vecchio contemporaneamente, di un nuovo appena fatto e di un vecchio antico, come le facciate delle case secolari appena affrescate o gli arditi ponti dell'autostrada sospesi sulle fasce delle colline vicine, ancora tenute ad ulivo. L'aria è quella di Liguria, calda e umida ha il sapore del mare; appesantita dal sale satura ogni cosa, mutando ciò che appartiene all'uomo e alla terra in cose del mare, suoi accessori: così la roccia diventa scoglio ed il paese si fa porto, senza che nel cambio perdano dignità.
Camminava per le strade del paese che aveva imparato ad amare con la sensazione di esservi ormai estraneo, come se la sua pur breve assenza gli avesse fatto perdere il diritto di sentirlo proprio e di farne egli stesso parte. Quelle case sembravano accoglierlo freddamente, come fanno sempre con i turisti delle gite organizzate, quelli con il pranzo al sacco, o con i terroni che sono arrivati portandosi la scatola di cartone legata con lo spago. Anche lui era terrone, pure se da quel treno era sceso in braccio a sua madre, ancora troppo piccolo per camminare da solo, ma già con quel marchio indelebile che gli scherzi cattivi e i cori dei bambini per strada e a scuola gli avevano impedito di dimenticare -
Cercò ansioso tra la gente che incontrava di ritrovare un volto amico o anche solo conosciuto, ma nella fitta folla di passanti non riconobbe nessuno, come se si fossero tutti barricati in casa ad aspettare che l'Autunno gli restituisse strade e piazze invase dallo sterminato esercito di turisti.
I Liguri, quei pochi rimasti, sentono forte il piacere dell'intimità, esasperandolo sino a farlo sembrare disprezzo per l'altro, e invece è riservatezza, cosa che si concilia assai male con il turismo di massa invadente e chiassoso, che però è un ottimo affare e tocca le corde giuste dell'altro loro piacere, il denaro. Così sono in molti a starsene dietro ad un bancone a vendere cianfrusaglie, con l'espressione di chi ti maledice e intanto tende la mano. Hanno comunque la decenza di non nasconderlo, che non sanno fingere, altra ottima qualità. Bisogna riuscire a vedere il minuscolo per amarli, sapere notarne ogni loro piccolo gesto, ogni mezza parola lesinata come merce rara da chi è arido di superfluo ma sa vibrare di finissime emozioni che nasconde bene tra le pieghe ruvide di questa terra.
Fu così tra gente sconosciuta che arrivò a casa, in un condominio decoroso, sei piani di recente costruzione, un palazzone abitato per lo più da meridionali che tra mutui e cavoli a pranzo avevano coronato il sogno di una vita. Dal citofono del portone suonò come sempre, due trilli lunghi e ravvicinati, aspettando poi che sua madre si degnasse di rispondere. Al solito doveva essere indaffarata nelle sue infinite faccende, dove ogni pur piccola interferenza al pianificato procedere della giornata diventava per lei una vera disgrazia; stava di certo imprecando, chiedendosi chi mai potesse essere a quell'ora, pure se un momento valeva l'altro, non essendole in ogni caso gradite visite. Quando finalmente rispose aveva il tono seccato di chi è stato disturbato:
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Seguì una lunga pausa, anch'essa prevista.
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Il tono non era cambiato molto, solo un po' meno freddo, ma ancora seccato. Paolo salì le due rampe di scale senza fretta, sapendo di dover aspettare ancora. Chiuse gli occhi per aiutarsi ad immaginare come doveva essere suonare ad un portone e salire sentendo la serratura scattare, poi trovare un gran sorriso ad aspettarlo. Invece se ne stava davanti a quella porta chiusa con in mano il suo pacchetto col fiocco ormai sfatto. Si sentì un idiota.
Dall'appartamento venivano rumori di porte sbattute e d'acqua che scorreva. Sentiva chiaramente il passo frettoloso di sua madre andare e venire di camera in camera, senza pause, fra altri suoni indecifrabili. Quando si decise a bussare gli rispose la stessa voce asciutta:
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Sapeva che non l'avrebbe trovata cambiata, eppure aveva sperato che dopo quasi sette mesi senza vederlo si sarebbe almeno affrettata ad aprirgli, ma era stata illusione, infantile illusione. Solo a quel punto ci fu un lungo tintinnare di chiavi, cinque o sei mandate di chiavistello, poi ancora fracasso di chiavi ed altri giri di serratura; l'ultima volta se ne ricordava meno. La mano gli corse d'istinto alla tasca, il pacchetto sparì tra le pieghe dei pantaloni appena prima che la porta si socchiudesse, trattenuta dalla catenella di sicurezza. L'esile figura della madre s'affacciò dal buio dell'ingresso, gli occhi nerissimi che brillavano nervosamente, incastonati sul bel volto pallido dai lineamenti netti che il tempo non aveva ancora turbato, lasciandone intatta l'inquietante armonia.
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Abbozzò un sorriso e la voce gli si stemprò un poco, per poi cambiare ancora quando Paolo fece per entrare:
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Era una vita che metteva pattine e non gli era servito crescere per liberarsene. Doveva esserci un altro modo.
Quando finalmente poté entrare cercò in ogni piccolo particolare anche una minima novità che fosse labile prova di un qualche cambiamento che però non c'era e non poteva esserci nell'ordine ossessivo di sempre, tra gli spazi esageratamente oppressi, pieni delle stesse cose che ricordava. I muri erano ancora tappezzati di quadri classicheggianti con solenni cornici troppo grandi e pacchiane, ed ogni angolo, ogni piccolo piano era ricoperto di ninnoli e soprammobili, rendendo l'insieme caotico ed asfissiante, anche se i singoli oggetti erano graziosi, scelti con un certo gusto. Ma la cosa peggiore era la luce, mancava luce in quella casa, una penombra opprimente che avvolgeva tutto, tutto avviliva.
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Possibile che non avesse niente di meglio da dirgli dopo tanto tempo, niente di meglio da offrirgli che un caffè ed il sapone per lavarsi? Avrebbe voluto stringerla forte e sollevarla un poco da terra, facendola girare un paio di volte per sentirla spaventata e divertita protestare di rimetterla giù, per poi raccontarle in un diluvio di parole le mille scoperte e le tante esperienze che aveva fatto, rimproverandola di avergli nascosto che là fuori c'era un mondo tanto grande, insieme duro e straordinario. Invece si limitò a seguirla lungo il corridoio senza aggiungere altro, convinto che se avesse provato a parlarle si sarebbe scontrato con l'impenetrabile indifferenza che da tempo gli aveva eretto contro, un muro di gomma su cui rimbalzava ogni espressione d'affetto, ritornandogli distorta in un'accusa assurda, inespressa ed indecifrabile, eppure perfettamente tangibile.
La porta del salotto si spalancò ma Paolo con un lieve cenno di rifiuto preferì entrare in cucina, cosa che gli fece meritare il largo sorriso della madre, grata d'averle evitato l'uso del divano, quello buono per gli ospiti, che non poteva sottrarsi dall'offrirgli, ma che chissà come avrebbe conciato con la divisa sporca di treno. Abbassò gli occhi per sottrarsi a quel sorriso sbagliato, indotto da una cortesia assente nella sua rinuncia, fatta perché non poteva accettare che gli si aprisse quella stanza solo adesso, concedendogliene l'uso che era riservato agli estranei, dopo avergli costretto l'infanzia in cucina, ad arrangiarsi a giocare con i soldatini sul tavolo o sulla lavatrice che però quando centrifugava erano certe stragi... mentre le altre stanze erano ordinate, pulite e lucidate, quindi sistematicamente chiuse. Ora gli era impossibile accettare la fredda accoglienza delle enciclopedie stipate in libreria e del velluto delle poltrone buone concesse per creanza. Certi ricordi erano ancora vivi, brucianti ed incomprensibili come allora, quando pieno delle domande dei bimbi vagava tra i resti di ciò che sarebbe dovuta essere una famiglia. Cercava risposte, ma gli sarebbe bastato trovare anche solo un po' d'affetto, e invece niente, solo rimproveri e divieti. Evocare l'infanzia gli faceva tornare sempre in mente il trenino, quello elettrico che gli aveva regalato suo padre in uno dei rari momenti in cui ricordava d'avere un figlio e voleva recuperare. Era persino esagerato, di quelli nelle scatole grandi con tanto di pista ed accessori. Peccato però che non fosse mai riuscito a giocarci. Non c'era verso, nella piccola cucina proprio non ci stava e di provarlo in sala non se ne parlava nemmeno; così per punire le sue insistenze ben presto finì tutto nello sgabuzzino, sullo scaffale più alto, visibile ed invitante ma decisamente fuori della sua portata. Era il ricordo di un'infanzia con gli spazi chiusi ed il gioco negato che gli lasciava sempre l'amaro in bocca, il sapore di quella tristezza che gli era rimasta dentro.
Sua madre gli portò qualcosa di fresco, un bicchiere d'acqua del rubinetto fredda di frigo. Ne teneva sempre una bottiglia. Mai nessuna concessione al superfluo, in nessun caso, tranne che per i suoi preziosi soprammobili, comprati ottenendo credito da un negozietto sotto casa, pagati un poco alla volta con gli spiccioli risparmiati dal poco che le dava il marito per la spesa, che così da modesta diventava misera. Arrivava a nascondere per mesi i pezzi più appariscenti dietro i vestiti negli armadi o nei fondi dei cassetti, per poi farli comparire nei rari momenti di serenità che venivano così bruscamente interrotti dalla discussione che ne seguiva.
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Non serve mai una tavola imbandita per accogliere un figlio che torna, basta un abbraccio senza tante cerimonie, piatto unico. Se però non vibra alcun sentimento allora il resto è solo contorno insipido, che così non vale niente, sterile ornamento.
Paolo scacciò subito il rimorso di non averle telefonato, era solo una tra le tante cose a cui aveva rinunciato perché costose. La lista era lunga, c'erano dentro le sigarette, lo spaccio con i gelati che gli piacevano tanto, la pizza con gli amici, le donne... e altro ancora, tutto quello che viene in mente di fare alla sua età. Mesi a non spendere, che da casa non arrivava niente, facendo le guardie degli altri, pure se erano reclute, bastava che pagassero. Loro ci potevano andare a casa, avevano i soldi per il treno e qualcuno ad aspettarli. Lui invece rimaneva per ore in branda a fissare l'insensato intreccio di tubi e cavi che correvano sottocoperta, chiedendosi perché fosse il solo ad avere in sorte genitori tanto aridi, incapaci persino di una cartolina, un paio di firme ed uno sputo sul francobollo. Così gli era venuta quell'idea del dono. Niente licenze, niente spese, solo risparmiare. Quel poco che riusciva a racimolare lo metteva via, ben nascosto nell'armadietto. Una volta gliel'avevano anche forzato, ma non avevano trovato niente; manco a smontarlo pezzo pezzo ci sarebbero riusciti. Il giorno prima del congedo era sceso in officina a prendersi il seghetto, un ferro vecchio che gli era costato una mezza dozzina di guardie, però era affilato. La mensola di ferro dentro era vuota e lui ci aveva fatto un piccolo foro di fianco, giusto perché passassero le banconote arrotolate, strano salvadanaio. Fece presto a recuperare il suo piccolo tesoro, bastò un taglio netto. Ora lo stringeva nel pugno che teneva chiuso sul tavolo, vicino al caffè che sua madre gli aveva portato nella tazzina del servizio buono. Tanti sacrifici tutti lì, spesi in quel minuscolo pacchetto sgualcito.
Gli venne nausea, forse il lungo viaggio o qualcosa che aveva mangiato, ma allora gli sembrò che fosse l'aria di quella casa o il sorriso allenato della madre a rivoltargli lo stomaco. Tornando aveva ritrovato intatta quella realtà che sapeva di muffa, dopo averne sfiorate altre intuendone il profumo, l'inebriante essenza del vivere. Si ricacciò in tasca il pacchetto, che non era quello il momento.
Sua madre continuò a trafficare in cucina facendogli quel tipo di domande che servono a reggere un'improbabile conversazione di circostanza, fino a quando si fermò perplessa, come se un pensiero l'avesse spiazzata e ne stesse seguendo l'intreccio che finalmente la portò alla domanda che Paolo stava aspettando:
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La sua risposta fu tanto pronta quanto muta, aprì il tascone dello zaino, prese un pezzo di carta pieno di timbri e firme e glielo porse provando a fare la faccia seria delle grandi occasioni. Lei lesse e rilesse le poche righe chiaramente incredula, poi senza alzare gli occhi dal foglio provò a dire qualcosa:
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Era certo che non avesse tenuto il conto e non aveva fatto niente per ricordarglielo, come se attendesse quel preciso momento per coglierla nel sonno quando avrebbe dovuto aspettarlo alzata.
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La donna rimase immobile a guardarlo, quasi la stesse sfiorando il dubbio d'essere assolutamente inadeguata al suo ruolo di madre. Allora fece una cosa sorprendente, un gesto lentissimo che come una carezza sfiorò i capelli del figlio, arrivando fin sulla guancia. Durò poco, il tempo d'un sussulto, poi senza aggiungere altro scivolò in qualche stanza oltre il corridoio, rituffandosi nella frenesia delle proprie faccende, quasi a voler chiudere in fretta quell'episodio dove suo malgrado s'era scorta, ancora ardente, la brace di affetti soffocati da tempo, eppure covati di nascosto, vergognosi segreti.
Sua madre lo aveva amato di un amore totalmente possessivo, dagli eccessi quasi maniacali, riversando su quel bambino tutta l'istintiva passione che gli riusciva, non avendo nessun altro disposto a goderne. Quella donna gelida e a tratti acida lui la sapeva capace di dolcezze infinite, malgrado la vita le avesse riservato un posto in piedi ed in ultima fila, con la pena di un'intelligenza viva quanto basta per averne lucida coscienza, così da soffrirne pienamente, senza gli sconti dell'inconsapevolezza. Incapace di piegarsi s'era lentamente indurita fino a lasciarsi seccare l'anima, fonte dei sentimenti buoni, che per gli altri bastano le budella.
La sua era una di quelle storie così scontate e apparentemente infarcite di retorica da poterne fare decine d'ore di televisione per uno di quei romanzetti infiniti, tanto che a saperla vera si stenta a crederlo, fino a quando non arriva il finale, che invece di sbrigare la prassi di un lieto fine o di una tragedia, s'impantana in uno squallido quotidiano senza concedere nulla alla fantasia. Allora diventa possibile, una favola finta.
Era orfana di guerra, di quella follia che prende gli uomini a scadenze quasi ritmiche, appena passa il tempo sufficiente a dimenticare le pene atroci della precedente. Bastano meno d'un paio di generazioni perché torni a montare quell'arrogante intolleranza che fa odiare qualcuno, poco importa chi o perché. Certi esempi sfiorano il ridicolo, motivi idioti che bastano affinché tutto ricominci da capo, stupide bestie feroci.
Aveva quattro anni quando le si schiusero le porte di un collegio di suore. Ciò che le restava dell'infanzia lo visse in lunghi corridoi bianchi e stanze immense dai soffitti altissimi, tra messe e lezioni, punizioni e regole. Di quel tempo le rimase una certa istruzione, un senso esasperato dell'ordine e forte l'odio per tutto ciò che sapesse d'incenso.
Già dodicenne vennero a prendersela certi parenti che non aveva mai conosciuto, offrendole inattesa una famiglia. La chiamano carità cristiana, però a volte è solo una scusa che copre un vasto campionario di convenienze. Era gente povera, tanto che avrebbe avuto bisogno di una buona mano dal Cielo per tirare avanti, ma se avessero dovuto mangiare con quello che il Cielo si ricordava di lasciare cadere sarebbero crepati sicuramente molto giovani e magri magri. È che certe volte anche alla Provvidenza bisogna forzare un po' la mano e raccattare quella ragazzina era stata proprio una benedizione. Nei lunghi giorni del collegio aveva imparato a mangiare poco e a cucire bene, così dovette sembrarle naturale dare una mano ai suoi disinteressati benefattori iniziando a lavorare per le famiglie ricche del paese, che presto si passarono la voce di quella giovinetta dalle mani d'oro che per pochi soldi faceva lavori stupendi. Andava a fare le consegne col cuore in gola, entusiasta di entrare in quelle case ricche, dove non sembrava mancare nulla ed il superfluo era largamente ostentato a prova della propria opulenza. Insieme a tanti complimenti riceveva pochi spiccioli da portare a casa e qualche vestitino smesso dalle figlie dei signori. Quegli stracci erano il suo oro, pizzi lisi che ornavano i suoi sogni d'adolescente. I lavori più importanti preferiva consegnarli nei giorni di festa quando tutti erano più generosi, fino a farla sedere qualche volta a tavola con loro per offrirle un pezzo di torta tutto per lei.
Non le era stato difficile fare amicizia con qualcuna delle ragazze conosciute nelle ville tra quelle che l'accettavano senza tante condizioni, affascinate dai suoi modi insieme dolci e fieri, senz'ombra d'umiltà. Presto iniziò a prender parte ai loro giochi, con le bambole grandi dai vestitini di stoffa buona e i pizzi veri.
La Domenica andava a messa con rinnovata costanza per poi al ritorno incamminarsi col gruppo delle famiglie benestanti che la mostravano con orgoglio, prova evidente della loro beneficenza. Certe attenzioni eccitavano la sua fantasia d'adolescente capace di credere alla favola di Cenerentola, dove il sogno di sposare il Principe diventa realtà per magia ed esigenze di morale. Così si ritrovò a sognare un grande abito bianco e tanti invitati che facevano festa nella splendida villa che sarebbe diventata la sua reggia. Peccato che i sogni non valgono nel grande conto della vita e anche quelli straordinari non cambiano d'un centesimo il risultato dei rigorosi calcoli del vero.
Malgrado fosse molto bella nessun rampollo di buona famiglia l'avrebbe mai portata all'altare, sfidando convenzioni ancora ben radicate. I poveri e i diversi possiamo aiutarli a sopravvivere, magari perché ci fanno senso, ma appena chiedono di stringerci anche solo un po' per fare posto pure a loro, tutta la nostra santa carità va a farsi fottere. Non era stupida, così riuscì a rendersene conto piuttosto presto, quando era ancora in tempo per scendere dalle nuvole senza farsi troppo male.
É qui che finisce la bella favola e si smontano le impalcature per quel lieto fine che non ci sarà mai; dopo è solo un muro enorme, liscio e senza appigli, lo stesso dove tanti si fermano, sedendo ad aspettare che il resto passi.
Al paese aveva un'amichetta, un tipo in gamba, altro che le sciacquette delle ville. Era figlia di pescatori, gente semplice che badava al sodo, mica allo stato di famiglia. Non c'era bisogno di un lavoro da consegnare perché le aprissero casa, stanzoni spogli e un po' sporchi, dove però stavano certi profumi che dalla cucina diventavano pranzo o cena per davvero, seduta con loro, dal segno della croce alla frutta. Tutto per niente, amica loro e bastava.
La sera, qualche volta a cena, c'era anche Vincenzo, tornato dal mare che puzzava di pesce. Non era brutto, ma così scuro, altro che i ragazzi biondi delle famiglie bene, e poi era rozzo, nei lineamenti come nel fare, e tanto ignorante. Insomma proprio non le piaceva. Però avevano la barca, che a quei tempi voleva dire un buon piatto caldo e sicuro. Così quando lui ruppe gli indugi e si dichiarò lei non ci stette molto a pensare e rinunciò di corsa al principe dei suoi sogni per una tavola da apparecchiare tutti i giorni.
Credeva d'essersi fatta bene i conti, e invece no, qualcosa doveva aver sbagliato se da subito non le sembrò per niente un buon affare. Pagò un prezzo troppo alto per il suo maneggio, che non c'è guadagno in un uomo violento e alcolizzato, capace di darle tanta dolcezza quanta ce ne può stare in un grano di sale.
Partorì suo figlio che era ancora una bambina, vent'anni acerbi, senza un po' di vita a maturarli. Lo fece in casa, come usava allora, con l'ostetrica e tutta la gente che poteva vantare un qualche grado di parentela. Mancava solo suo marito, uscito in mare anche quella notte, che non poteva perdere la luna buona. Non ci capì niente, solo che faceva tanto male, poi improvviso l'urlo della vita che le si quietò sul seno, piccole labbra che avevano sete di lei.
Quel bambino era roba sua, di nessun altro, l'unica cosa che le aveva dato la vita, che le apparteneva veramente. Provò a tenerselo stretto, ma il tempo passa, anche per lei che rimase immobile mentre suo figlio cresceva. Non riuscì mai a perdonargli d'averla tradita dilatando l'angolo del proprio orizzonte ben oltre i sicuri confini materni, pretendendo di camminare da solo senza darle la mano. Tentò di tutto, tanto con la dolcezza quanto con la durezza così cara a suo marito, senza riuscire a frenare il moto a spirale che inesorabile allargava l'orbita vitale di suo figlio portandola fuori della propria zona d'attrazione. Poteva sopportare quello che da sempre le veniva negato, per quanto può essere facile rinunciare a ciò che non ci appartiene, ma le era impossibile accettare di dividere col resto del mondo il suo bambino. Solo lei sapeva proteggerlo, evitandogli per dovere e passione le schifezze della vita prima che lo potessero anche solo sfiorare; era bastata lei a pagare il caro prezzo dell'esperienza.
Ma lo stesso il suo bimbo s'era ostinato a farsi uomo, nell'incerto tendersi alla vita. A volte parlava del suo bambino, di quanto fosse caro, di quanto fosse bello e di quanto l'amasse, come se lo piangesse morto, perduto per disgrazia, ed il dolore di una tomba le fosse più lieve dell'amarezza del tradimento. Solo a tratti riaffioravano da quel mare di risentimenti gesti passati, come la carezza di prima, alghe morte che ancora belle già puzzavano.
Il silenzio tra loro s'era fatto pesante, assolutamente insostenibile in quegli spazi stretti. Paolo ormai non respirava più, stava soffocando, Doveva andarsene di lì, subito.
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Si cambiò in fretta, tra le lamentele della madre che nel frattempo si era ricomposta, ritrovando il necessario distacco per riuscire a tornare l'inflessibile educatrice di sempre:
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Ricominciava, per mania o per rancore.
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Remissivo con sua madre lo era spesso, ogni volta che ne aveva la forza, ma era capitato pure che l'avesse mandata al diavolo, lei e le sue maledette fissazioni. Poi però se n'era sempre pentito, costretto alla resa dal rimorso che gli era insopportabile. Anche quando sapeva d'avere le più sacrosante ragioni finiva per cedere tra irrefrenabili singhiozzi, così che sua madre doveva credere d'avere un figlio piagnone, un mezzo scemo senza carattere.
Gli stava ancora urlando dietro qualcosa mentre si precipitava giù per le scale, ma era solo voce, argine troppo scarso per tanta piena. In un attimo fu in strada a riprendersi il paese, via lungo il viale, quasi di corsa, tra gli alberi in fila a fargli da guida verso dov'era inevitabile che finisse. Una piazza, il primo carruggio preso a caso e l'istinto che porta dove c'è più luce. L'ultimo muro fa angolo col niente, lo svolti e finisce il paese, proprio dove immenso comincia il mare. Poco importa che ci sia una strada, dei giardini con le panchine e le palme, è tutto mare, dettagli compresi nello spazio enorme che gli appartiene.
S'era fermato sulla spiaggia, ad un passo dalla schiuma leggera che facevano onde lente, appena abbozzate. Provava sempre a leggere la risacca, i marinai sanno farlo, ci vedono la storia di tempeste passate e i segni di quelle future, ma ci vuole mestiere o qualcos'altro che sanno loro, a lui non riusciva mai, neanche quella volta. Eppure intuiva chiaramente quanto d'uomo c'era in quel frangere misterioso, quante bestemmie, quanto sangue sputato sulle vele o nei motori, e le caviglie consumate nelle ruote dei timoni e le reti strappate e perse come certe vite, mai tornate. A saperla guardare la risacca è l'eco del mare, un brontolare di storie affidate a quel morire d'onda. Succede come per gli uomini, quello che sono è tutta risacca, l'eco di tempeste passate, ognuno ha le sue, nessuno è senza.
Si sentì un cretino a stare impalato su di una spiaggia a guardare la sabbia, a tratti coperta da un velo di mare, e vedere solo quello. Se proprio non scorgeva altro tanto valeva che se ne tornasse a casa o si stendesse a prendere il sole come facevano gli altri. E' che non poteva, il mare lo stava chiamando, e quando succede non c'è rimedio, devi partire, lasciare tutto e partire, facendo qualcosa di definitivo, irrimediabile.
Così lui diventò marinaio quel giorno, tirando fuori dalla tasca la mano chiusa, ben stretta su quel che restava di un pacchetto colorato, col fiocco sfatto. Caricò il braccio quanto poté e poi via, senza un attimo d'esitazione, lo sparò verso il mare, aprendo il pugno. Tutto quello che c'era nel mucchietto di carta fece qualcosa che sembrò volare e invece era cadere, un po' d'acqua che schizza. Misera cosa che lui vide appena, confusa com'era dal velo che aveva davanti agli occhi, quell'umido che fanno quando non si riesce a piangere.
Giovanni Ciaravolo © Copyright 2002 Tutti i diritti riservati