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Pubblicato nel mio libro "Il mare non è acqua"
stampato nel 2012 da Edizioni Tigulliana
L'esca
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Non avevo nessuna voglia di parlarne, e se non fosse stato che era il Professore l’avrei mandato a quel paese. Finii d’ormeggiare e mestamente sollevai lo sguardo.
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Il Professore a pescare non ci andava più da un pezzo, ma ai suoi tempi era stato il migliore. Un mito. Ora dispensava consigli a chi gli andava a genio; a me non ne aveva mai dato.
Era per via del gozzo. Quando s’era dovuto rassegnare a smettere col mare si decise a vendermelo. A una cifra folle, per la verità, ma ne valeva la pena, una gran bella barca. Feci l’errore di cambiarle il nome. Si chiamava Anna. L’ho ribattezzata Elena. Non me l’aveva ancora perdonato.
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Il Professore mi diede un’occhiata di sbieco mentre si voltava per andarsene.
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Quel giorno stesso presi colore e pennello per scrivere sulla prua un nome nuovo. L’ho chiamata "Mamma", così ognuno di noi due poteva pensare che fosse la sua.
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La sera dopo lo trovai sul pontile che m’aspettava. Non gli dissi niente, solo allargai le braccia, desolato. Nemmeno un pesce.
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Tacqui, sperando continuasse.
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Bella scoperta. Lo sanno anche i dilettanti che sono l’esca migliore. Solo che averla è impossibile. Quel piccolo paguro lo pescano sulle paranze, però lo ricacciano in mare. Potrebbero venderlo, anche bene, ma preferiscono buttarlo. Noi coi palamiti siamo la concorrenza, i nostri ami contro le loro reti. Una guerra antica.
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Il Professore sorrise.
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Prese il fagottino che s’era portato e me lo porse.
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L’Aldebaran passava di lì quasi tutte le mattine, trainando la rete sul filo del fondale consentito di 50 metri. Non lo avevo mai visto sconfinare, gente onesta. Mi ci affiancai e attesi che il comandante sbucasse dalla cabina.
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Lo sapeva bene che volevo, tante altre volte avevo provato a chiedergli le granfie. Corressi il timone per accostarmi ancora un poco. Ero così vicino che potevo sentire arrivare da bordo un buon profumo di soffritto. Anche se era appena l’alba stavano già cucinando. Sulle paranze, dopo una notte in mare, a quell’ora sono affamati. Loro la chiamano zuppa, ma è un’altra cosa; mettono un po’ d’aglio in olio abbondante e uniscono polpi o moscardini a pezzi con qualche crostaceo, dipende da quel che pescano. Fanno rosolare, aggiustano di sale, poi aggiungono pomodoro e un po’ d’acqua, non tanta, che il sughetto deve rimanere stretto. Niente odori, in mare non si conservano. I pesci li mettono un po’ alla volta, rispettando il loro tempo di cottura. Fuoco basso ma non troppo, che non hanno tempo da perdere. Quando i pesci sono cotti li tolgono, tenendoli a parte per secondo; col sugo ci condiscono gli spaghetti. Sarà il pesce appena pescato, sarà l’aria di mare, tant’è che chi assaggia quella delizia non la scorda più.
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Il comandante fece un cenno al marinaio che subito la prese e gliela portò.
Il Professore sapeva il fatto suo. Era un bianco giovane, ma sapido e corposo, perfetto per la loro zuppa di pesce. Quello lesse attentamente l’etichetta, mentre gli si apriva un largo sorriso.
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Me ne dettero un secchio pieno.
Quella sera rientrai con la barca carica; tra i tanti curiosi sul pontile c’era anche il Professore. Non rimase a guardarmi sbarcare il pesce, gli bastò vedere la "Mamma" bassa sull’acqua, tant’era pesante. Voltandosi m’accennò un saluto e, giuro, m’è sembrato sorridesse.
Giovanni Ciaravolo © Copyright 2012 Tutti i diritti riservati