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Questo racconto ha vinto il Primo Premio con lode dell'Editore al concorso
"Genova e la pace nel mondo" anno 2005, organizzato dal "Club dei 17".
È stato pubblicato nella raccolta antologica "Pagine d'autore" Edizioni AMPAI,
Nell'Antologia di Narrativa "Concorso degli Assi" Terza edizione 2008
Carta e Penna Editore -
Nell'Antologia "Gente che scrive" 2012 Edizioni Lulu
Il ponte
Non di muri, ma di ponti
ha bisogno l'uomo.
Giovanni Paolo II
Erano mura enormi, una montagna di pietre accatastate malamente, squadrate con una certa approssimazione, quasi avessero avuto fretta. Vi si fermò a pochi metri, la bocca schiusa e lo sguardo fisso in alto, fin dove finivano. Chi le aveva costruite doveva avere un grande nemico e tanta, tanta paura. Vi notò subito l'assenza di fregi, le linee sobrie, tutte strettamente funzionali, senza alcuna concessione all'estetica. Scrisse qualcosa su di un foglio, poi si diresse all'unica porta, ch'era poco più grande d'una fessura, un varco deludente per tanta imponenza, come se non avessero pensato a fare qualcosa da aprire, ma da chiudere in fretta.
I soldati di guardia erano bene armati, quasi fossero pronti ad un lungo assedio, per altro verosimile, se non fosse stato che lì fuori non c'era nessuno. Porse il salvacondotto all'ufficiale che gli si parò davanti, certo che sarebbe stata una cosa lunga. Quello lesse il documento molto attentamente e controllato l'ultimo timbro scattò sull'attenti.
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Gli rese il salvacondotto, salutò da militare e tornò al suo posto di guardia. Lui restò immobile, come se mancasse qualcosa, una qualche forma d'accoglienza. Eppure l'avevano cercato loro, insistendo a lungo prima che si decidesse ad accettare.
Lo richiamò la voce dell'attendente che intanto s'era chinato a prendergli il bagaglio.
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Gli si rivolse sorridendo, con quella gentilezza che non s'impara, bisogna avercela dentro. Indugiò stupito su quell'ormai inattesa cortesia, troppo a lungo perché non fosse imbarazzante.
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Il ragazzo scrollò il capo e senza smettere di sorridere s'incamminò. Dovette rassegnarsi a seguirlo per strade strette, chiuse tra file di case alte, addossate le une sulle altre, ogni spazio preso. Erano costruzioni semplici, le finestre che bastavano, tutte senza balconi. Non c'erano archi né portici e mai finirono in un largo, qualcosa che facesse da piazza. Poca la gente per strada e tutta con la fretta di chi rientra, nessuno che avesse lo slancio di chi esce. L'unico passo diverso lo incontrarono svoltando l'angolo d'un vecchio palazzo. Il lento corteo seguiva una piccola bara, quattro tavole inchiodate, posate su di un carretto spoglio, senza nessun drappo, né la carità d'un fiore. L'attendente a quel passare s'alzò appena il berretto senza arrivare a toglierselo, giusto l'accenno d'un saluto, come se quello fosse un gesto consumato, rimasto abitudine. Proseguirono appena s'aprì un varco, senza aspettare che sfilassero tutti.
Di fronte a loro ancora mura, sempre più alte e possenti; queste terminavano con una massiccia merlatura che proteggeva sentinelle immobili, le armi in pugno e lo sguardo fisso di fronte, puntati contro chissà quale nemico. S'avvicinò quel tanto che bastava a gettare lo sguardo oltre una bassa feritoia, fino a quel che c'era fuori.
Rimase impalato come un cretino, il viso contratto in una ridicola smorfia di sorpresa. Certo, ne aveva sentito parlare, ma aveva sempre creduto fossero solo voci, favole nate da qualche colossale sbronza, e invece no, per quanto incredibile fosse dovette credere a quel che vedeva. Proprio lì, pochi metri di fronte a lui si levavano altre mura che cingevano un'altra città. A dividerle solo il vuoto d'un burrone, una stretta spaccatura nel terreno, ma profonda, ripidissima. I bordi irregolari erano seguiti scrupolosamente dalle difese militari, ogni pezzetto di terra occupato, come se gli altri avessero potuto prenderselo. Il dirupo era immenso, sembrava nascere dalle bianche vette a Nord e attraversava tutto l'altopiano, dividendolo in due, per poi allargarsi in una profonda valle tra montagne inaccessibili che declinavano lentamente fino alla lontana pianura. Un'antica leggenda narrava che un tempo lì ci fosse una sola, grande città, poi un terremoto, violentissimo, e quella lunga crepa a dividerle per sempre. Più niente a unirle, neppure l'antica memoria, per quant'era incredibile. Voler arrivare all'altra città era un'impresa, con l'unica via possibile che costeggiava il dirupo, fino alla valle tra le montagne, arrivando dove iniziava la pianura, per finalmente risalire sull'altro versante. Ci sarebbero voluti giorni. I loro eserciti non avevano mai osato tanto, troppo rischioso lasciare le mura indifese per tutto quel tempo. Così erano rimasti lì, inchiodati uno di fronte all'altro, in una specie di guerra incancrenita in quell'assurdo assedio reciproco e infinito.
L'attendente si fermò sotto l'insegna d'una locanda.
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L'oste gli si fece incontro con l'ossequio di chi ha sempre servito.
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La tovaglia lisa era stata apparecchiata per un solo ospite.
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Non stette a discutere e incurante delle proteste del giovane ordinò che fosse aggiunto un posto.
Portarono subito uno sgabello, un cucchiaio ed un bicchiere.
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Il ragazzo sedette.
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Lo fissò come se stesse provando a mettere a fuoco qualcosa oltre gli occhi del ragazzo.
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Arrivarono le scodelle, calde e profumate, e pane, una grande pagnotta scura.
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Il tono del ragazzo s'era fatto fermo, irreplicabile.
Salirono in camera che il tramonto accennava appena, ma la stanza era già buia, l'unica finestra chiusa, sigillata con scuri massicci dietro una tenda fitta, esagerata. Appeso al soffitto un baldacchino di pizzo finissimo copriva il grande letto. Sul comodino l'unica candela, e a fianco una boccetta, un bicchiere ed una brocca d'acqua. Rabi versò un po' dell'acqua nel bicchiere e v'aggiunse qualche goccia del liquido che era nella boccetta.
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Scostò il pizzo e sedette sul letto lentamente, con un lungo sospiro sfinito, una specie di resa. Invitò il ragazzo ad avvicinarsi battendo una mano sul lenzuolo. Rabi obbedì, senza rinunciare a porgergli il bicchiere.
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Al ragazzo gli si accese un sorriso sicuro e dolcissimo, così uguale a quello di suo figlio da fargli male, tanto gli pesava rievocare quell'assenza. Tacque, inutile provare ad avvilire tanta speranza, inutile e doloroso.
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Uscì dalla stanza senza aspettare una qualche replica, discorso chiuso, lasciandolo solo con quel gran vuoto, suo figlio che a quel punto gli dava un bacio.
Dormì poco. Nel silenzio della stanza gli sembrava di sentire improvvisi ronzii.
***
Fuori doveva essere chiaro da tempo quando finalmente Rabi gli portò la colazione. Bussò garbatamente, aspettando il permesso d'entrare. Posò il vassoio e tolse gli scuri dalla finestra, lasciando però abbassata la tenda.
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Ignorò la tazza di latte caldo e i piccoli biscotti dorati. S'alzò per andare alla finestra e scostata la tenda guardò fuori. Poté vedere uno scorcio dell'altra città, appena dietro le mura, tetti bassi di case sbiadite e finestre, un numero impressionante di finestre, tutte chiuse. Lunghi portici vuoti davano su larghe strade vuote che finivano in grandi piazze vuote. I tanti balconi sembravano diroccati dal tempo passato a restare inutili. Da lì il burrone neanche si vedeva, coperto dalle mura e dai tetti più alti, come se a dividerli non ci fosse dello spazio, una vera separazione fisica, ma qualcosa d'astratto, solo l'idea d'una distanza.
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Lasciò andare la tenda che tornò rigida a negare quel po' di luce.
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Rabi non replicò ed infilato il berretto un po' di sbieco lo guidò con passo svelto per le strade che portavano al centro.
Il Palazzo del Governo era una costruzione grande, esageratamente grande. Tanta imponenza la rendeva volgare, quasi pacchiana. Sull'alto pennone dell'ingresso sventolava la bandiera, uno di quei panni colorati che servono a dividere gli uomini, per poi farli scannare. Il picchetto schierato rese gli onori e il Generale in alta uniforme gli diede il benvenuto sulla soglia, stringendogli la mano con tanta forza da fargli male.
Fu scortato per un lungo corridoio, dove in fondo gli spalancarono una grande porta lucida d'oro che dava su una stanza piena di luce, tanto che entrando dovette stringere gli occhi per distinguere le sagome dei Senatori dietro i banchi, avvertendone però chiaramente il fruscio delle vesti mentre s'alzavano al suo passare.
In fondo al salone, su di un seggio dorato sedeva il Governatore che s'alzò per ultimo, molto lentamente, allargando platealmente le braccia mentre sfoggiava un gran sorriso ben allenato.
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Il Generale s'era fermato all'ingresso, l'attendente dietro, costringendolo ad attraversare l'aula da solo, con gli occhi di tutti addosso. S'impose di camminare senza fretta, sostenendo lo sguardo di chi incrociava il suo, rinunciando a rispondere ai tanti sorrisi. Il Governatore lo guardava con compiacimento, quasi fosse un trofeo, una sua qualche vittoria, poi, dopo averlo invitato a sedersi al suo fianco, con un solo cenno dette inizio ai discorsi di benvenuto. Fu una cosa lunga e piena di retorica sulla grandezza di quella città, sulla grandezza di quell'opera e sulla grandezza di quel momento storico, ma niente che spiegasse niente.
Finito l'ennesimo intervento restò uno strano silenzio, di quando s'aspetta qualcosa. Ancora gli occhi di tutti addosso, senza che riuscisse a capire cosa volessero da lui. Qualcuno gli s'avvicinò.
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Non se l'era preparato, e nemmeno sapeva che dire, senza avere avuto il tempo di valutare, di poter decidere. S'alzò e fece una lunga pausa, poi qualcosa improvvisò:
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Si fece come un vuoto, l'assenza di respiro, un lungo attimo immobile.
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Da un banco in fondo all'aula scattò in piedi un giovane, gli abiti semplici dei contadini.
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Il Governatore s'alzò con una calma artificiale, la voce controllata di chi dentro grida.
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Non ci fu bisogno d'altro, votazioni o cose del genere. Tutto deciso.
Yona gli s'avvicinò visibilmente imbarazzato e con un buffo inchino l'invitò a seguirlo. Uscirono con passo lento, quasi solenne. Presero a parlare appena fuori, in strada, senza il fastidioso eco del Palazzo.
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Fece cenno col capo, un annuire prolungato in via d'elaborazione, l'espressione seria di chi riflette.
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Continuò a fare cenni affermativi, sempre più assorto, aspettando il resto.
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Dietro loro s'era formato un lungo corteo silenzioso che li seguì fino alle mura che davano sul burrone, in un punto dov'era stata aperta una larga breccia che faceva da ingresso ad un cantiere che sembrava vuoto, abbandonato da tempo. Vedendolo non credette ai suoi occhi, che non aveva mai visto niente del genere. Dal loro versante la spalla del ponte era imponente, tutta in pietra e ben appoggiata al bordo, senza problemi di stabilità, ma con la volta appena accennata, sospesa nel vuoto e lasciata incompiuta. Anche nell'altra città avevano aperto un passaggio nelle mura, proprio di fronte, dove stavano costruendo la loro parte di ponte, ma differente, tutt'altra cosa. Era fatto interamente in legno pregiato finemente lavorato, coi travi lasciati a mezzo, sospesi nel vuoto, ad abbozzare un salto impossibile. Era utopia anche solo pensare di finirlo quel ponte, potere unire due parti tanto diverse.
Provò a spiegarlo che un ponte per metà ad arco e per metà a travata, ammesso di riuscire ad unirlo in qualche modo non poteva reggere, ma tutti insistevano che trovasse un qualche sistema, che da lui s'aspettavano di più, almeno l'impegno d'un tentativo.
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Il mormorio della folla si fece minaccioso.
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La gente zittì, ma il Generale non si lasciò sfiorare da nessun dubbio:
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Lui si voltò verso Rabi, come a cercarne il sostegno, ma ne incontrò lo sguardo, tanto simile a quello di suo figlio, che lo stava implorando.
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Fece l'effetto d'un tappo che salta, improvviso l'applauso scoppiò forte, finalmente qualcosa da festeggiare. Tanta la gente che s'avvicinò per stringergli la mano, dirgli parole, e chi ringraziava, chi lo incoraggiava. Per tutto il tempo che ci volle il Generale rimase immobile, solo nel suo imbarazzo, senza avere di fianco neppure il Gran Sacerdote sparito chissà dove.
Lentamente tutti andarono via, più niente da fare lì. Lui si fermò ancora un poco a dare un ultimo sguardo al ponte, poi, scrollando il capo, s'avviò con Rabi alla locanda.
***
Stavano percorrendo l'ultimo tratto di strada in silenzio, quando da un vicolo laterale gli arrivarono un misto di grida e rumori confusi. Si voltarono in tempo per scorgere un giovane correre ancora pochi metri prima d'essere raggiunto dai soldati. La resistenza che oppose fu rabbiosa, ma durò poco, troppi i colpi da parare, troppe le braccia a bloccarlo in terra, preda catturata. Rabi sbiancò.
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Non disse altro, solo lo prese per un braccio, tirandolo fino alla locanda che infilarono di corsa, ignorando la tavola già apparecchiata, per salire su, in camera. Rabi chiuse la porta con eccessiva meticolosità, poi gli si rivolse in lacrime.
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Gli prese le mani tra le sue, tremavano.
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Provò a scuoterlo, pure se avrebbe voluto stringerselo al petto:
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Rabi s'asciugò le lacrime con la manica della divisa, tirando su di naso, giusto la pausa d'un sospiro.
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Gli sembrò assurdo, non tanto il fatto in sé, quanto l'accorgersi che per un attimo gli era sembrato del tutto normale; comprensibile l'arresto, inevitabile la condanna, tutto logico, solo perché quello veniva da fuori, nemico per una qualche forma di diversità, impossibile da accettare. Ingiusto ma perfettamente normale. La malaria non doveva essere l'unico male contagioso di quel posto, non solo l'acqua era marcia, ma anche l'aria infetta, pesante d'odio.
Fu un dolore allo stomaco a farlo tornare in sé, una fitta che riconobbe poi come indignazione.
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S'appoggiò al muro, piegandosi sulle ginocchia, come a rannicchiarsi.
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Gli occhi asciutti, secchi. Fece un lungo respiro, ma profondo, come a raccogliere qualcos'altro che aria. Sembrò ricomporsi, solo la voce gli rimase più sottile.
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Rabi non riuscì a trattenere un sorriso.
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Lo seguì senza ribattere fin giù per una porticina dietro al bancone della locanda. Non ci fu bisogno che gli indicassero quale fosse Noa tra le donne che pulivano verdura sul vecchio tavolaccio. Lunghi fili di seta scura incorniciavano i tratti armoniosi di un viso perfetto. Il naso era piccino, la bocca fine, senza volgarità, e la morbida pelle olivastra splendeva di sole. Ma erano gli occhi, quegli occhi a incantare. Voragini nere che a guardarci dentro ci si perdeva, due spicchi di cielo, quand'è notte. Le guance turgide erano rigate di pianto. Sapeva. Gli si gettò ai piedi, in ginocchio.
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Non riuscì a dire altro, solo gli prese le mani e gliele baciò, bagnandogliele di lacrime, calde più delle labbra che pure scottavano. L'imbarazzo lo bloccò qualche istante prima che riuscisse a liberarsi i polsi e a prenderle le spalle, per farla rialzare.
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Poi si voltò verso Rabi, lo sguardo smarrito di chi non sa che fare.
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Non rispose subito, ci stette a pensare un po', poi qualcosa cominciò a quadrare nella confusione che aveva in testa.
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Non avevano tempo da perdere, così decisero in fretta che poteva funzionare. Andò da solo, direttamente dal Generale, mentre Rabi avvisava gli altri.
Gli ci volle poco a convincere quel mucchio di decorazioni, l'idea che la spia potesse risolvere tutti i loro problemi gli piacque subito. Lo scortarono fino alle prigioni, che erano una bassa costruzione in mezzo alle case, niente che facesse pensare ad un carcere: nessuno sbarramento, nessuna recinzione; solo il portone, assai massiccio e ben presidiato, poteva fare intuire qualcosa.
L'ampio atrio era vuoto, con al centro uno scalone di marmo bianco che invece di salire scendeva ripido, fin giù, sottoterra. Finiti i gradini sbarrava la strada un enorme cancello. Le guardie armate aprirono solo dopo aver controllato i documenti anche all'ufficiale che l'accompagnava. La lunga galleria che seguiva era umida e male illuminata; in fondo un altro cancello, altre guardie. Le celle erano porte di ferro nei muri, buchi scavati nella terra e ben chiusi, come le fosse di un cimitero, solo appena più larghe. In quella che aprirono stava un giovane rannicchiato in un angolo. Gli dissero ch'era la spia che voleva interrogare. Chiese che li lasciassero soli, ma non glielo concessero, spiegando ch'era pericoloso. La porta rimase aperta, le guardie fuori tranne una, dentro con loro a tenere la torcia accesa.
Si presentò al prigioniero spiegando perché fosse lì, ma ebbe chiara la sensazione che il ragazzo sapesse già tutto, informato chissà da chi. Era bello, il fisico asciutto, ben scolpito, i capelli corti da militare, neri come gli occhi, pece scurissima. Nello sguardo una chiara luce d'orgoglio che però mai arrivava ad essere arroganza.
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La pace. Suonò enorme quella parola fra tanta pena, uno stridere acuto. Non se ne curò per niente, continuando col genere di bei discorsi che fanno i pacifisti, e che raccolgono applausi convinti, consensi sinceri e nient'altro, che la pace è un affare che rende poco.
Al giovane sarebbe bastato anche meno per fargli venire voglia di cominciare. Spiegò che gli antichi, quand'ancora esisteva una sola città, avevano costruito una fitta rete fognaria, ma il terremoto spaccò la condotta principale, là dove s'era formato il burrone. Col tempo se n'era persa memoria, ma le due gallerie parzialmente crollate erano ancora lì, appena sotto le mura. Nelle notti senza luna, passando dal troncone rimasto nella sua città, riusciva a calarsi nel dirupo, per poi risalirlo sino ad infilarsi nella stretta fessura sull'altro lato, senza che nessuno lo vedesse. L'arrampicata era rischiosa, ma gli permetteva di sbucare dentro il Tempio, in una cripta nascosta.
Per la recita ch'era andato a fare sarebbe anche potuto bastare, ma continuò lo stesso con un sacco di domande sul burrone, su com'era il fondo, se ci fosse dell'acqua, e sulla consistenza delle pareti. Sembrava seguisse un pensiero, lo schizzo d'un progetto.
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A quel punto, quando sembrava fossero riusciti a scacciare le tante domande che non potevano farsi, il ragazzo osò qualcosa:
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Diede una pacca sulla spalla del giovane, tanto dolcemente da sembrare una carezza. Poi si voltò e chiese d'uscire.
Alla locanda trovò Rabi che l'aspettava sulla porta.
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A Rabi tornò quel suo sorriso infantile, un po' scanzonato.
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Prese un foglio accuratamente piegato in più parti e lo porse a Rabi.
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Rabi continuava a fissarlo senza capire, con l'aria di chi aspetta il resto.
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Rabi ormai non lo seguiva più, completamente spiazzato da una risposta che complicava la domanda. Gli passò allora un braccio sulle spalle e con la premura d'un padre gli spiegò quel che aveva in mente. Scesero per cena con un segreto in comune, tra sguardi e sorrisi d'intesa. Quando risalì in camera s'addormentò subito, un sonno profondo, tutto il resto fuori.
***
Fu svegliato presto, l'alba appena fatta, dal gran chiasso che veniva dalla strada. Passi di corsa, ordini secchi, urlati. Spalancarono la porta senza bussare ch'era già in piedi.
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Misero ogni cosa a soqquadro, sino a che finito ogni angolo dovettero rassegnarsi e delusi uscire. Si precipitò allora alla finestra scostando la pesante tenda; s'affacciò impaziente, aspettando che cominciasse.
La prima partì dall'altra città. Una piccola pietra tonda, poco più d'un sasso. Disegnò un ampio arco a superare le mura, per poi ricadere nel burrone, sotto quel ponte assurdo. A quella ne seguì un'altra, stessa traiettoria, dentro il burrone. Le sentinelle dettero l'allarme. L'altra cadde che già i corni suonavano. I soldati ch'erano per strada a cercare la spia accorsero verso le mura, mentre qualche ufficiale già impartiva ordini che s'accavallavano ad altri contrari. A quel punto un'altra pietra, ma questa partita da lì, un vicolo alle sue spalle, appena dietro le prime case di quel versante del burrone, cosa propria. Stessa traiettoria, solo opposta, un altro muro da superare, lo stesso posto dove finire, sotto il ponte. Si precipitò giù per le scale e corse in strada. I lanci di pietre s'erano infittiti da entrambe le parti, tutti verso il burrone. Arrivò trafelato il Generale, cercando di capire che stesse succedendo. Non ci mise molto a rinunciare.
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Il braccio dell'ufficiale s'agitava minaccioso con il pugno chiuso, fino a quando qualcuno gliel'afferrò con una stretta forte, irriverente.
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Sul viso del Governatore l'espressione di scherno rattrappì in una smorfia grottesca. Lui dovette trattenersi per non ridergli in faccia.
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Il Generale provò a protestare qualcos'altro, ma il Governatore con un gesto deciso lo zittì.
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Il viso del Governatore tentò di forzare un sorriso.
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Non disse altro e salutando con un leggero inchino del capo se ne andò, seguito dalle sue guardie, dal Generale e dall'immancabile codazzo di ruffiani. Il lancio delle pietre intanto continuava, senza che nessuno si nascondesse più, così che pure qualche sentinella aveva preso a tirare pezzi di merlatura. Nell'aria s'avvertiva palpabile l'euforia dei grandi momenti, quelli che dopo non è più lo stesso.
Stette ancora un po' a godersi lo spettacolo con un sorriso compiaciuto, poi si diresse a passo svelto verso la locanda. Salì subito in camera a preparare il bagaglio, che non restava mai in un posto più del necessario, tanto meno in quello, come se a rimanere ancora un poco, poi facesse più male andarsene. Rabi lo seguì discreto fin sulla soglia, tanto da spaventarlo appena gli si rivolse.
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Fece per prendere il bagaglio ma quello gli si parò davanti.
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Che voglia d'abbracciarselo quel ragazzetto pieno d'entusiasmo, con tutta la vita davanti, una vita che in qualche modo gli stava consegnando migliore.
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Senza aggiungere altro chinò lo sguardo ed uscì.
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Era passato così tanto tempo che quasi non ci pensava più. Il messo che gli bussò alla porta aveva sul viso tutti i segni del lungo viaggio, ma riuscì lo stesso a sciogliersi in un gran sorriso mentre gli consegnava il plico sigillato. Dentro c'era l'invito ufficiale all'inaugurazione, con sotto la firma dei due Governatori. Aveva il bagaglio pronto, le poche cose di chi non si ferma. Partì subito.
Arrivò ch'era mattina, una bella giornata di sole. Per quanto avesse provato ad immaginare la città nuova, quello che aveva di fronte sembrava proprio un altro posto. Costeggiò la riva d'un grande lago azzurro, tanta luce riflessa da abbagliare. Quello era, scintillio. Di fronte la città, senza niente a nasconderla; case, tetti e finestre, spalancate. La piccola porta era tutto ciò che restava delle vecchie mura, un semplice arco di pietra grezza a far da soglia. I due soldati di guardia erano in alta uniforme, un po' ridicola nella rigidità del nuovo. Quando mostrò il salvacondotto gli sorrisero come si fa per uno scherzo.
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Rabi gli corse incontro, provando a fare il saluto militare. Aveva gradi nuovi sulle spalline, stellette da ufficiale.
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Si dettero la mano formalmente, cercando d'onorare i propri ruoli, ma la stretta si fece subito forte, gli sguardi dritti l'uno dentro l'altro e le labbra strette in una strana smorfia, qualcosa di trattenuto a stento. Camminarono per le vie della città senza dirsi altro, ma così vicini da sfiorarsi, quasi a diluire l'abbraccio che avrebbero voluto darsi.
Quando arrivarono vicino al burrone dovettero farsi largo tra la folla che s'accalcava sul ciglio. Oltre quella gente più niente, nessuna traccia delle vecchie mura, solo le due sponde libere, vicinissime. Dove sarebbe dovuto sorgere il ponte c'erano ancora i monconi, lasciati lì a fare da monito. Poco più in basso una montagna di pietre saliva dal fondo del dirupo fino al livello della superficie, unendo le due sponde come un ponte che invece di saltare, riempiva il vuoto che li aveva divisi.
Le autorità erano schierate al gran completo, l'abito della cerimonia a vestire l'opportunismo del potere. Era una festa di sorrisi, quelli allenati dei signori e quelli fiduciosi della gente; tutto uno stringersi di mani, in cui era facile distinguere i tanti che se l'erano consumate a lanciar pietre. Di fronte, sull'altra sponda, gli stessi sorrisi, le stesse mani.
Al suo arrivo ogni voce si spense e i suoni della festa si fecero silenzio teso, carico d'attesa. Il Governatore l'accolse porgendogli un drappo rosso con sopra una pietra. Dopo un goffo inchino spiegò ch'era l'ultima, e che toccava a lui. Inutile tentare un rifiuto. Quel momento l'avevano atteso come una liberazione e adesso ch'era finalmente arrivato lo offrivano a lui come cosa preziosa. Afferrò il sasso, e senza starci tanto a pensare caricò il braccio e tirò, con quanta forza aveva. Non l'avrebbe mai creduto, lui, serio professionista affermato, di provare tanto piacere mentre quella pietra gli schizzava di mano, andandosi a piantare fra le altre, con un tonfo secco, udito chiaramente in un silenzio perfetto.
Non capì. S'aspettava un boato, la folla esplodere in una gioia incontenibile, e invece niente. Silenzio. Nessuno si mosse, c'era qualcos'altro da succedere. Gli ci volle poco a capire che lo lasciavano fare a loro.
Di fronte al ponte s'era fatta avanti Noa, bella da lasciare senza fiato nel suo vestito bianco, l'abito immacolato delle spose.
Sull'altra sponda Hassan, impettito nella divisa da cerimonia, gli occhi lucidi d'emozione. Cominciarono a venirsi incontro piano, il primo passo incerto, poi gli altri sempre più decisi, fino a correre, le braccia spalancate, pronte a chiudersi in quell'abbraccio atteso da un tempo enorme, concluso finalmente da un bacio tenerissimo. Si tennero stretti, incuranti delle lacrime che gli si mischiavano addosso, e dell'urlo liberatorio della gente, che tutta prese a farsi avanti per finalmente toccarsi, da qualche parte là in mezzo, da dove per così tanto tempo li avevano tenuti lontani.
***
Nessuno sa se questa storia è vera, certo che è strana. Racconta di una città divisa in due e di un ponte impossibile. Narra dell'odio che la stava divorando, condannandola a morte, fino a quando il più grande costruttore di ponti l'ha salvata con qualcosa che dicono fosse amore.
Nessuno sa se questa storia è vera, ma se vera non è, allora c'è bisogno che lo diventi presto.
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