Giovanni Ciaravolo

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I miei racconti


Questo racconto ha vinto il Primo Premio con lode dell'Editore al concorso
"Genova e la pace nel mondo" anno 2005, organizzato dal "Club dei 17".
È stato pubblicato nella raccolta antologica "Pagine d'autore" Edizioni AMPAI,
Nell'Antologia di Narrativa "Concorso degli Assi" Terza edizione 2008
Carta e Penna Editore - Torino
Nell'Antologia "Gente che scrive" 2012 Edizioni Lulu




Il ponte

Non di muri, ma di ponti
ha bisogno l'uomo.
Giovanni Paolo II


Erano mura enormi, una montagna di pietre accatastate malamente, squadrate con una certa approssimazione, quasi avessero avuto fretta. Vi si fermò a pochi metri, la bocca schiusa e lo sguardo fisso in alto, fin dove finivano. Chi le aveva costruite doveva avere un grande nemico e tanta, tanta paura. Vi notò subito l'assenza di fregi, le linee sobrie, tutte strettamente funzionali, senza alcuna concessione all'estetica. Scrisse qualcosa su di un foglio, poi si diresse all'unica porta, ch'era poco più grande d'una fessura, un varco deludente per tanta imponenza, come se non avessero pensato a fare qualcosa da aprire, ma da chiudere in fretta.
I soldati di guardia erano bene armati, quasi fossero pronti ad un lungo assedio, per altro verosimile, se non fosse stato che lì fuori non c'era nessuno. Porse il salvacondotto all'ufficiale che gli si parò davanti, certo che sarebbe stata una cosa lunga. Quello lesse il documento molto attentamente e controllato l'ultimo timbro scattò sull'attenti.
- Benvenuto Ingegnere. La stavamo aspettando. - Poi fece un cenno, qualcosa con la mano che doveva essere un ordine, e subito un giovane in divisa mosse qualche passo verso di loro. - Il suo attendente provvederà a sistemarla nell'alloggio che le abbiamo riservato. Per qualsiasi cosa chieda pure a lui. -
Gli rese il salvacondotto, salutò da militare e tornò al suo posto di guardia. Lui restò immobile, come se mancasse qualcosa, una qualche forma d'accoglienza. Eppure l'avevano cercato loro, insistendo a lungo prima che si decidesse ad accettare.
Lo richiamò la voce dell'attendente che intanto s'era chinato a prendergli il bagaglio.
- Venga Ingegnere, mi segua. -
Gli si rivolse sorridendo, con quella gentilezza che non s'impara, bisogna avercela dentro. Indugiò stupito su quell'ormai inattesa cortesia, troppo a lungo perché non fosse imbarazzante.
- La prego - lo invitò confuso l'attendente - viene tardi per la cena. -
- La cena? - chiese lui senza capire - È ancora così presto. -
Il ragazzo scrollò il capo e senza smettere di sorridere s'incamminò. Dovette rassegnarsi a seguirlo per strade strette, chiuse tra file di case alte, addossate le une sulle altre, ogni spazio preso. Erano costruzioni semplici, le finestre che bastavano, tutte senza balconi. Non c'erano archi né portici e mai finirono in un largo, qualcosa che facesse da piazza. Poca la gente per strada e tutta con la fretta di chi rientra, nessuno che avesse lo slancio di chi esce. L'unico passo diverso lo incontrarono svoltando l'angolo d'un vecchio palazzo. Il lento corteo seguiva una piccola bara, quattro tavole inchiodate, posate su di un carretto spoglio, senza nessun drappo, né la carità d'un fiore. L'attendente a quel passare s'alzò appena il berretto senza arrivare a toglierselo, giusto l'accenno d'un saluto, come se quello fosse un gesto consumato, rimasto abitudine. Proseguirono appena s'aprì un varco, senza aspettare che sfilassero tutti.
Di fronte a loro ancora mura, sempre più alte e possenti; queste terminavano con una massiccia merlatura che proteggeva sentinelle immobili, le armi in pugno e lo sguardo fisso di fronte, puntati contro chissà quale nemico. S'avvicinò quel tanto che bastava a gettare lo sguardo oltre una bassa feritoia, fino a quel che c'era fuori.
Rimase impalato come un cretino, il viso contratto in una ridicola smorfia di sorpresa. Certo, ne aveva sentito parlare, ma aveva sempre creduto fossero solo voci, favole nate da qualche colossale sbronza, e invece no, per quanto incredibile fosse dovette credere a quel che vedeva. Proprio lì, pochi metri di fronte a lui si levavano altre mura che cingevano un'altra città. A dividerle solo il vuoto d'un burrone, una stretta spaccatura nel terreno, ma profonda, ripidissima. I bordi irregolari erano seguiti scrupolosamente dalle difese militari, ogni pezzetto di terra occupato, come se gli altri avessero potuto prenderselo. Il dirupo era immenso, sembrava nascere dalle bianche vette a Nord e attraversava tutto l'altopiano, dividendolo in due, per poi allargarsi in una profonda valle tra montagne inaccessibili che declinavano lentamente fino alla lontana pianura. Un'antica leggenda narrava che un tempo lì ci fosse una sola, grande città, poi un terremoto, violentissimo, e quella lunga crepa a dividerle per sempre. Più niente a unirle, neppure l'antica memoria, per quant'era incredibile. Voler arrivare all'altra città era un'impresa, con l'unica via possibile che costeggiava il dirupo, fino alla valle tra le montagne, arrivando dove iniziava la pianura, per finalmente risalire sull'altro versante. Ci sarebbero voluti giorni. I loro eserciti non avevano mai osato tanto, troppo rischioso lasciare le mura indifese per tutto quel tempo. Così erano rimasti lì, inchiodati uno di fronte all'altro, in una specie di guerra incancrenita in quell'assurdo assedio reciproco e infinito.
L'attendente si fermò sotto l'insegna d'una locanda.
- Qui si mangia bene - disse indicandola - e si riesce anche a dormire. - poi quasi a volersi scusare della pochezza dell'alloggio aggiunse - È anche l'unica rimasta aperta, che forestieri qui non ne passano più. -
- Andrà benone - rispose lui - solo che a quest'ora proprio non ho appetito. -
- Vedrà Ingegnere, davanti alla minestra che fanno qui cambierà idea. -
L'oste gli si fece incontro con l'ossequio di chi ha sempre servito.
- L'Ingegnere immagino - e all'accenno d'un assenso esagerò l'inchino - Benvenuto Eccellenza, il suo tavolo è pronto, la serviamo subito. -
La tovaglia lisa era stata apparecchiata per un solo ospite.
- E tu non mangi? - chiese all'attendente.
- Oh no Ingegnere! M'arrangerò più tardi. -
Non stette a discutere e incurante delle proteste del giovane ordinò che fosse aggiunto un posto.
Portarono subito uno sgabello, un cucchiaio ed un bicchiere.
- Siedi. -
- Ma... veramente non potrei... il regolamento... -
- Al diavolo il regolamento! Ora mi serve più parlare con qualcuno, che essere servito. Ci sono molte cose che non so, e altre che non capisco. -
Il ragazzo sedette.
- Come ti chiami? -
- Rabi signore. -
- Quanti anni hai Rabi? -
- Vent'anni signore. -
Lo fissò come se stesse provando a mettere a fuoco qualcosa oltre gli occhi del ragazzo.
- Vent'anni... ce li avrebbe anche mio figlio vent'anni, se solo me l'avessero lasciato. -
Arrivarono le scodelle, calde e profumate, e pane, una grande pagnotta scura.
- Che t'hanno detto di me Rabi? -
- Per la verità poco signore... dicono che siete il migliore, e che solo voi potete farcela... ma altro non so. -
- Sai Rabi, qui è tutto così strano, misterioso. Da subito quest'affare m'è sembrato assurdo. Mi chiedo cosa ci sia di tanto difficile a costruire un ponte. Perché gli altri hanno fallito? -
- Oh, non chiedetelo a me signore, so poco di certe cose, solo che ci hanno provato in tanti. -
- Devo sapere di che si tratta, capire qual è il problema, insomma parlare con qualcuno, subito. -
- Non ora Ingegnere, dovete avere ancora un po' di pazienza. Domani siete atteso a Palazzo, ci sarà il Gran Consiglio al completo e lì vi spiegheranno ogni cosa. -
- Ma perché perdere tempo? È ancora chiaro, potrei fare un sopralluogo, vedere il cantiere, rendermi conto. -
- Ormai è tardi signore, tra un po' fa buio, e poi sarete stanco, il viaggio è stato lungo. -
- Sì, lungo. Le montagne, la strada, un accidente di posto questo. -
- Ecco, vede. Meglio andare a riposare. -
Il tono del ragazzo s'era fatto fermo, irreplicabile.
Salirono in camera che il tramonto accennava appena, ma la stanza era già buia, l'unica finestra chiusa, sigillata con scuri massicci dietro una tenda fitta, esagerata. Appeso al soffitto un baldacchino di pizzo finissimo copriva il grande letto. Sul comodino l'unica candela, e a fianco una boccetta, un bicchiere ed una brocca d'acqua. Rabi versò un po' dell'acqua nel bicchiere e v'aggiunse qualche goccia del liquido che era nella boccetta.
- Ecco, così dovrebbe bastare. - e porgendogli il bicchiere aggiunse - Tutto in un sorso signore, che si sente meno l'amaro. -
- Ma... che mi dai? Cos'è questa roba? -
- La medicina signore. -
- La medicina? Ma non sono mica malato io! -
- Oh no signore; non ancora. Ma questa deve prenderla. Se succede, le terrà bassa la febbre. -
- Ma quale febbre, cosa c'hai messo lì dentro? -
- Chinino signore... per la malaria. -
- Malaria? -
- Sì signore, non glielo hanno detto? -
Scostò il pizzo e sedette sul letto lentamente, con un lungo sospiro sfinito, una specie di resa. Invitò il ragazzo ad avvicinarsi battendo una mano sul lenzuolo. Rabi obbedì, senza rinunciare a porgergli il bicchiere.
- Un'epidemia quindi. Qui avete la malaria e ve ne uscite col Chinino? -
- Questo abbiamo signore - Rabi provò a sorridere.
- Le medicine non servono. Per fermare certe malattie l'unico rimedio è trovare il focolaio dell'infezione e bonificarlo, subito. -
- Fosse semplice. Sono anni che ci proviamo, ma l'acqua marcia è una maledizione senza rimedio. -
- L'acqua marcia? -
- Sì, la palude. Le zanzare vengono da lì, e con loro la malaria. - istintivamente si passò una mano sul collo - Dicono che una volta fosse un grande lago, poi lentamente s'è seccato; è rimasto uno stagno morto, acqua cattiva. Ci riusciamo solo a crepare in quel pantano. - gli cedette la voce, lo schianto d'un momento subito vinto. - Ora però ci siete voi. -
- Io? Ma che c'entro io? Faccio ponti, mica miracoli. -
Al ragazzo gli si accese un sorriso sicuro e dolcissimo, così uguale a quello di suo figlio da fargli male, tanto gli pesava rievocare quell'assenza. Tacque, inutile provare ad avvilire tanta speranza, inutile e doloroso.
- Domani capirà Ingegnere. Ora pensi a riposare. - dicendolo s'alzò di scatto, un'ultima cosa da aggiungere - Buona notte Signore. -
Uscì dalla stanza senza aspettare una qualche replica, discorso chiuso, lasciandolo solo con quel gran vuoto, suo figlio che a quel punto gli dava un bacio.
Dormì poco. Nel silenzio della stanza gli sembrava di sentire improvvisi ronzii.

***


Fuori doveva essere chiaro da tempo quando finalmente Rabi gli portò la colazione. Bussò garbatamente, aspettando il permesso d'entrare. Posò il vassoio e tolse gli scuri dalla finestra, lasciando però abbassata la tenda.
- Apri per l'amor del cielo, spalanca! -
- Oh no Ingegnere! Può essere pericoloso! Potrebbero vederla, prendere la mira... -
- Già, la guerra. Non bastavano le zanzare. -
Ignorò la tazza di latte caldo e i piccoli biscotti dorati. S'alzò per andare alla finestra e scostata la tenda guardò fuori. Poté vedere uno scorcio dell'altra città, appena dietro le mura, tetti bassi di case sbiadite e finestre, un numero impressionante di finestre, tutte chiuse. Lunghi portici vuoti davano su larghe strade vuote che finivano in grandi piazze vuote. I tanti balconi sembravano diroccati dal tempo passato a restare inutili. Da lì il burrone neanche si vedeva, coperto dalle mura e dai tetti più alti, come se a dividerli non ci fosse dello spazio, una vera separazione fisica, ma qualcosa d'astratto, solo l'idea d'una distanza.
- Chiuda Ingegnere! La prego! -
Lasciò andare la tenda che tornò rigida a negare quel po' di luce.
- Va bene, niente panorama. - disse seccato - e allora andiamo! -
- Ma lei deve ancora fare colazione, Signore. -
- Ora non mi va. Davvero, non perdiamo altro tempo. -
Rabi non replicò ed infilato il berretto un po' di sbieco lo guidò con passo svelto per le strade che portavano al centro.
Il Palazzo del Governo era una costruzione grande, esageratamente grande. Tanta imponenza la rendeva volgare, quasi pacchiana. Sull'alto pennone dell'ingresso sventolava la bandiera, uno di quei panni colorati che servono a dividere gli uomini, per poi farli scannare. Il picchetto schierato rese gli onori e il Generale in alta uniforme gli diede il benvenuto sulla soglia, stringendogli la mano con tanta forza da fargli male.
Fu scortato per un lungo corridoio, dove in fondo gli spalancarono una grande porta lucida d'oro che dava su una stanza piena di luce, tanto che entrando dovette stringere gli occhi per distinguere le sagome dei Senatori dietro i banchi, avvertendone però chiaramente il fruscio delle vesti mentre s'alzavano al suo passare.
In fondo al salone, su di un seggio dorato sedeva il Governatore che s'alzò per ultimo, molto lentamente, allargando platealmente le braccia mentre sfoggiava un gran sorriso ben allenato.
- Venga Ingegnere, venga! L'aspettavamo impazienti. -
Il Generale s'era fermato all'ingresso, l'attendente dietro, costringendolo ad attraversare l'aula da solo, con gli occhi di tutti addosso. S'impose di camminare senza fretta, sostenendo lo sguardo di chi incrociava il suo, rinunciando a rispondere ai tanti sorrisi. Il Governatore lo guardava con compiacimento, quasi fosse un trofeo, una sua qualche vittoria, poi, dopo averlo invitato a sedersi al suo fianco, con un solo cenno dette inizio ai discorsi di benvenuto. Fu una cosa lunga e piena di retorica sulla grandezza di quella città, sulla grandezza di quell'opera e sulla grandezza di quel momento storico, ma niente che spiegasse niente.
Finito l'ennesimo intervento restò uno strano silenzio, di quando s'aspetta qualcosa. Ancora gli occhi di tutti addosso, senza che riuscisse a capire cosa volessero da lui. Qualcuno gli s'avvicinò.
- Il discorso d'accettazione, Eccellenza. -
Non se l'era preparato, e nemmeno sapeva che dire, senza avere avuto il tempo di valutare, di poter decidere. S'alzò e fece una lunga pausa, poi qualcosa improvvisò:
- Immagino che a questo punto vi aspettiate che accetti l'incarico. E io l'accetterei volentieri se solo potessi, ma ahimè non posso... proprio non posso accettare. -
Si fece come un vuoto, l'assenza di respiro, un lungo attimo immobile.
- M'avete chiesto di terminare un ponte che nessuno riesce a finire e la cosa, per quanto strana, non mi spaventa per niente. In passato ho portato a termine incarichi ben più difficili, ma questo... non so, è tutto così vago, misterioso. Sembra di fare una scommessa al buio, e io signori, non gioco mai d'azzardo. -
Da un banco in fondo all'aula scattò in piedi un giovane, gli abiti semplici dei contadini.
- Ancora Governatore! - urlò - Un altro inganno! Dopo anni che promettete, ecco qui cosa ci portate! Dubbi, ancora dubbi. La gente è stufa. Là fuori hanno bisogno di certezze, di fatti Governatore! Una volta per tutte. -
Il Governatore s'alzò con una calma artificiale, la voce controllata di chi dentro grida.
- Bada a te Yona! Il fatto d'essere il Rappresentante del Popolo non ti dà il diritto d'alzare la voce con me! Ho fatto una promessa e la manterrò! - poi rivolgendosi all'Ingegnere chiese: - Di che avete bisogno voi? -
- Devo fare almeno un sopralluogo prima di poter accettare. -
- E sia! Che si faccia una volta per tutte! E tu, Yona, accompagnerai personalmente l'Ingegnere, a prova che sia tutto regolare. -
Non ci fu bisogno d'altro, votazioni o cose del genere. Tutto deciso.
Yona gli s'avvicinò visibilmente imbarazzato e con un buffo inchino l'invitò a seguirlo. Uscirono con passo lento, quasi solenne. Presero a parlare appena fuori, in strada, senza il fastidioso eco del Palazzo.
- Ho l'impressione che proponendole quest'incarico le abbiano nascosto molte cose Ingegnere. -
- Sì, è vero. Troppe. -
- Della malaria avrà saputo. -
- Sì, certo. -
- Ecco, la questione sta tutta lì; è che la palude si trova sul nostro territorio, appena fuori delle mura di Levante, ma la malaria se ne frega delle frontiere, e sta uccidendo anche nell'altra città. Così, nostro malgrado, da un po' di tempo abbiamo un nemico comune, qualcosa insieme che ci costringe a trattare. C'è voluto del tempo, ma ormai sappiamo cosa dobbiamo fare. -
- Bene! È a questo che serve parlare, e… che cosa avete deciso? -
- La nostra sciagura è l'acqua marcia. Non riusciamo a bonificare quel pantano. Andrebbe prosciugato, ma ci vorrebbero anni, troppi, e la malaria ci sta decimando. Però ci sarebbe un altro modo, usare l'acqua buona. Qui noi dobbiamo scavare dei pozzi per trovarla, ma loro lì ne hanno ancora in abbondanza. Il fiume che gli scorre vicino nasce sulle montagne, e se da lassù ne deviassimo il corso potremmo dirigerlo verso la palude, che in poco tempo tornerebbe ad essere lago con l'acqua corrente, e allora vaffanculo le zanzare e la loro maledetta malaria. -
Fece cenno col capo, un annuire prolungato in via d'elaborazione, l'espressione seria di chi riflette.
- Sarebbe la soluzione che cerchiamo se non fosse che in questo modo loro resterebbero senz'acqua, coi campi aridi e nemmeno i pozzi che abbiamo qui, che dall'altro lato del burrone la falda non arriva. Dividere l'acqua per lasciargliene abbastanza proprio non si può, che serve tutta al lago per mantenere il livello sufficiente, capisce? -
Continuò a fare cenni affermativi, sempre più assorto, aspettando il resto.
- Era a quel punto che serviva parlare, provare a fidarsi, rinunciando a giocare sporco. Abbiamo provato a farlo. Loro sarebbero disposti a darci l'acqua per vincere la malaria accettando di perdere i campi, ma vogliono in cambio terra buona da coltivare. Sulle rive del lago tornate fertili ce ne sarà per tutti, e in fondo la cosa si potrebbe fare. -
- Quindi il ponte serve a loro per passare da questa parte del burrone per andare a lavorare i loro nuovi campi. -
- Sì, è così. Però quelli non cambieranno mai il corso del fiume se prima non è pronto il ponte. La deviazione sulla loro terra è l'unica garanzia che hanno, ed anche in futuro potranno togliere l'acqua al lago se non dovessimo rispettare gli accordi. -
- Quindi niente ponte niente deviazione, ma senza deviazione addio lago, e con l'acqua marcia vi dovrete tenete la malaria. -
- Ecco, sì, ora sapete perché il ponte è così importante, per tutti. -
Dietro loro s'era formato un lungo corteo silenzioso che li seguì fino alle mura che davano sul burrone, in un punto dov'era stata aperta una larga breccia che faceva da ingresso ad un cantiere che sembrava vuoto, abbandonato da tempo. Vedendolo non credette ai suoi occhi, che non aveva mai visto niente del genere. Dal loro versante la spalla del ponte era imponente, tutta in pietra e ben appoggiata al bordo, senza problemi di stabilità, ma con la volta appena accennata, sospesa nel vuoto e lasciata incompiuta. Anche nell'altra città avevano aperto un passaggio nelle mura, proprio di fronte, dove stavano costruendo la loro parte di ponte, ma differente, tutt'altra cosa. Era fatto interamente in legno pregiato finemente lavorato, coi travi lasciati a mezzo, sospesi nel vuoto, ad abbozzare un salto impossibile. Era utopia anche solo pensare di finirlo quel ponte, potere unire due parti tanto diverse.
Provò a spiegarlo che un ponte per metà ad arco e per metà a travata, ammesso di riuscire ad unirlo in qualche modo non poteva reggere, ma tutti insistevano che trovasse un qualche sistema, che da lui s'aspettavano di più, almeno l'impegno d'un tentativo.
- Non si può, non si può - provò a ripetere - l'unico modo per venirne a capo è che vi mettiate d'accordo; o lo fate tutto in legno o tutto in pietra, e nello stesso modo. -
- Impossibile! Quelli non accetteranno mai il nostro progetto. - intervenne il Generale che fino a quel momento era rimasto in disparte.
- E allora accettate il loro! È altrettanto valido. -
- Sia mai! - urlò il Gran Sacerdote - su quel legno hanno inciso il nome del loro Dio! È peccato mortale anche solo toccarlo! -
Il mormorio della folla si fece minaccioso.
- Ma di che Dio parli! - protestò lui - Quando preghiamo alziamo gli occhi allo stesso cielo, che differenza fa se il nome che usiamo non è lo stesso? Sempre quello è: il mistero del nostro perché, uguale per tutti. -
La gente zittì, ma il Generale non si lasciò sfiorare da nessun dubbio:
- È inutile discutere. Con quella gente non si può ragionare. Ci finisca il ponte e tutto si risolverà. -
Lui si voltò verso Rabi, come a cercarne il sostegno, ma ne incontrò lo sguardo, tanto simile a quello di suo figlio, che lo stava implorando.
- E va bene, va bene! Vedrò che posso fare. È pazzesco, ma ci proverò. -
Fece l'effetto d'un tappo che salta, improvviso l'applauso scoppiò forte, finalmente qualcosa da festeggiare. Tanta la gente che s'avvicinò per stringergli la mano, dirgli parole, e chi ringraziava, chi lo incoraggiava. Per tutto il tempo che ci volle il Generale rimase immobile, solo nel suo imbarazzo, senza avere di fianco neppure il Gran Sacerdote sparito chissà dove.
Lentamente tutti andarono via, più niente da fare lì. Lui si fermò ancora un poco a dare un ultimo sguardo al ponte, poi, scrollando il capo, s'avviò con Rabi alla locanda.


***


Stavano percorrendo l'ultimo tratto di strada in silenzio, quando da un vicolo laterale gli arrivarono un misto di grida e rumori confusi. Si voltarono in tempo per scorgere un giovane correre ancora pochi metri prima d'essere raggiunto dai soldati. La resistenza che oppose fu rabbiosa, ma durò poco, troppi i colpi da parare, troppe le braccia a bloccarlo in terra, preda catturata. Rabi sbiancò.
- Dio mio no! -
- Ma che succede Rabi? -
- L'hanno preso! -
- Hanno preso chi? -
- Venga via Signore! -
- Ma chi è? Lo conosci? -
- Via, presto! -
Non disse altro, solo lo prese per un braccio, tirandolo fino alla locanda che infilarono di corsa, ignorando la tavola già apparecchiata, per salire su, in camera. Rabi chiuse la porta con eccessiva meticolosità, poi gli si rivolse in lacrime.
- La prego Eccellenza, ci aiuti! -
Gli prese le mani tra le sue, tremavano.
- Calma, su, calma. Cerca di spiegarmi che è successo. -
- Hanno arrestato Hassan. - la voce gli soffocò in gola, rotta dai singhiozzi. - Doveva succedere, prima o poi doveva succedere! -
Provò a scuoterlo, pure se avrebbe voluto stringerselo al petto:
- Dai Rabi, ora basta! Invece di piangere fammi capire; chi è questo Hassan? -
- Lui è il fidanzato di Noa. -
- Noa? E adesso chi sarebbe questa Noa? -
- Noa è mia sorella signore. -
Rabi s'asciugò le lacrime con la manica della divisa, tirando su di naso, giusto la pausa d'un sospiro.
- Ma lui non ha fatto niente! È un bravo ragazzo, lo conosco bene io. -
- Sì, certo... vedrai che è stato solo uno sbaglio, l'avranno scambiato per qualcun altro, e tra un po' andrà tutto a posto. -
- No Signore no, quelli non sbagliano, era proprio lui che volevano. -
- Ma allora spiegami perché? -
- Perché siamo dei maledetti, ecco perché! Non sappiamo vivere in pace noi; gli altri sempre e solo nemici, senza nemmeno conoscerli. Lui non può stare qui, capisce? È uno di loro, viene da là, dall'altra città. - lo disse tutto d'un fiato, con una rabbia sfinita, impotente - Lo accuseranno d'essere una spia, lo condanneranno senza processo. -
Gli sembrò assurdo, non tanto il fatto in sé, quanto l'accorgersi che per un attimo gli era sembrato del tutto normale; comprensibile l'arresto, inevitabile la condanna, tutto logico, solo perché quello veniva da fuori, nemico per una qualche forma di diversità, impossibile da accettare. Ingiusto ma perfettamente normale. La malaria non doveva essere l'unico male contagioso di quel posto, non solo l'acqua era marcia, ma anche l'aria infetta, pesante d'odio.
Fu un dolore allo stomaco a farlo tornare in sé, una fitta che riconobbe poi come indignazione.
- Ma non possono farlo! Se davvero non ha fatto niente basterà dire la verità, testimoniare per lui. -
- La verità, sì… Come si vede che lei è di fuori Ingegnere. La verità non servirebbe a niente, solo a farci fare la sua stessa fine. -
- Ma no! Cerchiamo di ragionare. C'è sicuramente un modo, qualcosa da fare. -
- E cosa Ingegnere? Oggi stesso lo appenderanno ad una corda. Non c'è tempo, per cosa poi... -
- Ma no, no! Come sarebbe a dire una corda? Che l'impiccheranno? -
- È la guerra ingegnere, c'è la legge marziale, le spie fanno quella fine. -
S'appoggiò al muro, piegandosi sulle ginocchia, come a rannicchiarsi.
- Che c'è Signore? -
- Non deve succedere, non più, non ancora. Era solo un ragazzino mio figlio, ce l'hanno mandato in guerra, che ne sapeva lui? L'hanno preso subito, ha alzato le mani. L'unica pietà che hanno avuto è stata di ridarcelo, ancora con i segni della corda al collo. -
Gli occhi asciutti, secchi. Fece un lungo respiro, ma profondo, come a raccogliere qualcos'altro che aria. Sembrò ricomporsi, solo la voce gli rimase più sottile.
- Quel che so non basta. Ho bisogno di ogni particolare, anche il più insignificante. Dimmi, come faceva Hassan a passare le mura e il burrone senza essere visto dalle sentinelle? -
- Non l'ho mai saputo Ingegnere. Veniva a trovare mia sorella all'improvviso, poi com'era arrivato spariva. -
- Un'altra cosa che non torna è come abbiano fatto lui e tua sorella a conoscersi, divisi come siete qui. -
Rabi non riuscì a trattenere un sorriso.
- Sono cose che succedono quando si è giovani, non dica di averlo dimenticato. Hassan stava di sentinella alle mura della sua città; noi invece abitiamo a ridosso del burrone, la prima fila di case. In linea d'aria sono poche decine di metri. L'ha vista alla finestra un giorno che Noa s'asciugava i capelli al sole, quell'incosciente! È durata così per un po', lei schiudeva la finestra e lui lì, impalato a guardarla. -
- Tutto qui? Mi sembra un po' poco perché nasca un grande amore. -
- Ah sì, dimenticavo... è che lei non conosce mia sorella, altrimenti capirebbe. -
- È così bella? -
- Oh sì! Un fiore. Ma venga, rimediamo subito, forse è meglio che gliela presenti. - La sua espressione interrogativa lo costrinse a precisare - Lei lavora qui. Non l'ha mai vista perché sta in cucina, e non abbiamo avuto occasione... -
Lo seguì senza ribattere fin giù per una porticina dietro al bancone della locanda. Non ci fu bisogno che gli indicassero quale fosse Noa tra le donne che pulivano verdura sul vecchio tavolaccio. Lunghi fili di seta scura incorniciavano i tratti armoniosi di un viso perfetto. Il naso era piccino, la bocca fine, senza volgarità, e la morbida pelle olivastra splendeva di sole. Ma erano gli occhi, quegli occhi a incantare. Voragini nere che a guardarci dentro ci si perdeva, due spicchi di cielo, quand'è notte. Le guance turgide erano rigate di pianto. Sapeva. Gli si gettò ai piedi, in ginocchio.
- La prego Eccellenza, la prego! Lo salvi! -
Non riuscì a dire altro, solo gli prese le mani e gliele baciò, bagnandogliele di lacrime, calde più delle labbra che pure scottavano. L'imbarazzo lo bloccò qualche istante prima che riuscisse a liberarsi i polsi e a prenderle le spalle, per farla rialzare.
- Non fare così, ti prego. Ora basta piangere. Vi aiuterò, te lo giuro. -
Poi si voltò verso Rabi, lo sguardo smarrito di chi non sa che fare.
- È solo questione di tempo Ingegnere, basterebbero poche ore. Ho degli amici tra le guardie, e se lei riuscisse in qualche modo a far rinviare l'esecuzione al resto penseremmo noi. -
Non rispose subito, ci stette a pensare un po', poi qualcosa cominciò a quadrare nella confusione che aveva in testa.
- Forse potrei ottenere una sospensione con la scusa di voler interrogare il prigioniero. Posso fingermi interessato a sapere com'è riuscito a oltrepassare il burrone; basterebbe fargli credere che può servirmi a risolvere il problema del ponte. -
Non avevano tempo da perdere, così decisero in fretta che poteva funzionare. Andò da solo, direttamente dal Generale, mentre Rabi avvisava gli altri.
Gli ci volle poco a convincere quel mucchio di decorazioni, l'idea che la spia potesse risolvere tutti i loro problemi gli piacque subito. Lo scortarono fino alle prigioni, che erano una bassa costruzione in mezzo alle case, niente che facesse pensare ad un carcere: nessuno sbarramento, nessuna recinzione; solo il portone, assai massiccio e ben presidiato, poteva fare intuire qualcosa.
L'ampio atrio era vuoto, con al centro uno scalone di marmo bianco che invece di salire scendeva ripido, fin giù, sottoterra. Finiti i gradini sbarrava la strada un enorme cancello. Le guardie armate aprirono solo dopo aver controllato i documenti anche all'ufficiale che l'accompagnava. La lunga galleria che seguiva era umida e male illuminata; in fondo un altro cancello, altre guardie. Le celle erano porte di ferro nei muri, buchi scavati nella terra e ben chiusi, come le fosse di un cimitero, solo appena più larghe. In quella che aprirono stava un giovane rannicchiato in un angolo. Gli dissero ch'era la spia che voleva interrogare. Chiese che li lasciassero soli, ma non glielo concessero, spiegando ch'era pericoloso. La porta rimase aperta, le guardie fuori tranne una, dentro con loro a tenere la torcia accesa.
Si presentò al prigioniero spiegando perché fosse lì, ma ebbe chiara la sensazione che il ragazzo sapesse già tutto, informato chissà da chi. Era bello, il fisico asciutto, ben scolpito, i capelli corti da militare, neri come gli occhi, pece scurissima. Nello sguardo una chiara luce d'orgoglio che però mai arrivava ad essere arroganza.
- Che ve lo dico a fare come sono passato? - disse - Tra poco mi faranno fuori. Che ci guadagno a parlare? -
- La vita. -
- Palle! Nessuno può tanto, meno che mai voi, che siete straniero. -
- Sì che posso. -
- Dimostratemelo. -
- Intanto la tua esecuzione è stata rimandata, e se mi aiuti posso chiedere per te clemenza. -
- Sì, clemenza! Piuttosto che marcire qui dentro è meglio il boia. -
- Se riesco a finire il ponte potrò chiedere molto in cambio, compresa la grazia per te. Ma devi collaborare, perché l'incubo finisca, per la tua gente, per la pace. -
La pace. Suonò enorme quella parola fra tanta pena, uno stridere acuto. Non se ne curò per niente, continuando col genere di bei discorsi che fanno i pacifisti, e che raccolgono applausi convinti, consensi sinceri e nient'altro, che la pace è un affare che rende poco.
Al giovane sarebbe bastato anche meno per fargli venire voglia di cominciare. Spiegò che gli antichi, quand'ancora esisteva una sola città, avevano costruito una fitta rete fognaria, ma il terremoto spaccò la condotta principale, là dove s'era formato il burrone. Col tempo se n'era persa memoria, ma le due gallerie parzialmente crollate erano ancora lì, appena sotto le mura. Nelle notti senza luna, passando dal troncone rimasto nella sua città, riusciva a calarsi nel dirupo, per poi risalirlo sino ad infilarsi nella stretta fessura sull'altro lato, senza che nessuno lo vedesse. L'arrampicata era rischiosa, ma gli permetteva di sbucare dentro il Tempio, in una cripta nascosta.
Per la recita ch'era andato a fare sarebbe anche potuto bastare, ma continuò lo stesso con un sacco di domande sul burrone, su com'era il fondo, se ci fosse dell'acqua, e sulla consistenza delle pareti. Sembrava seguisse un pensiero, lo schizzo d'un progetto.
- Bene Hassan, per adesso non ho bisogno d'altro. -
A quel punto, quando sembrava fossero riusciti a scacciare le tante domande che non potevano farsi, il ragazzo osò qualcosa:
- Ingegnere... riuscirete a finirlo il ponte? -
- Non lo so, ho una mezza idea, che forse... chissà. -
Diede una pacca sulla spalla del giovane, tanto dolcemente da sembrare una carezza. Poi si voltò e chiese d'uscire.
Alla locanda trovò Rabi che l'aspettava sulla porta.
- Allora? -
- Hanno sospeso l'esecuzione. Ho il permesso d'interrogarlo ancora, se mi dovesse servire. -
- Bene! Ci sono cascati. Siete stato grande! Ora tocca a noi; saremo pronti per stanotte. -
- Ma siete sicuri? Non è meglio se vi prendete un po' di tempo? -
A Rabi tornò quel suo sorriso infantile, un po' scanzonato.
- Tranquillo Ingegnere! Gli amici qui sono tanti, molti più di quanti possa immaginare. La gente non ne può più di crepare e chi non crepa... insomma l'ha visto che razza di vita facciamo qui. -
- Molto meglio così. Per quello che ho in mente serve essere in tanti. -
Prese un foglio accuratamente piegato in più parti e lo porse a Rabi.
- Tieni. Questo devi darlo ad Hassan. Io non ho potuto, c'erano le guardie. C'è spiegato che deve fare, una volta tornato libero. E poi speriamo che anche di là siano in molti a non poterne più. -
Rabi continuava a fissarlo senza capire, con l'aria di chi aspetta il resto.
- Ecco... diciamo che in quel foglio c'è il nuovo progetto del ponte. -
Rabi ormai non lo seguiva più, completamente spiazzato da una risposta che complicava la domanda. Gli passò allora un braccio sulle spalle e con la premura d'un padre gli spiegò quel che aveva in mente. Scesero per cena con un segreto in comune, tra sguardi e sorrisi d'intesa. Quando risalì in camera s'addormentò subito, un sonno profondo, tutto il resto fuori.

***


Fu svegliato presto, l'alba appena fatta, dal gran chiasso che veniva dalla strada. Passi di corsa, ordini secchi, urlati. Spalancarono la porta senza bussare ch'era già in piedi.
- Che succede? - protestò.
- Scusate Eccellenza. C'è stata un'evasione. Quella spia... stanotte. -
- E la cercate qui, da me? -
- Sono gli ordini, Eccellenza: dobbiamo controllare dappertutto. -
Misero ogni cosa a soqquadro, sino a che finito ogni angolo dovettero rassegnarsi e delusi uscire. Si precipitò allora alla finestra scostando la pesante tenda; s'affacciò impaziente, aspettando che cominciasse.
La prima partì dall'altra città. Una piccola pietra tonda, poco più d'un sasso. Disegnò un ampio arco a superare le mura, per poi ricadere nel burrone, sotto quel ponte assurdo. A quella ne seguì un'altra, stessa traiettoria, dentro il burrone. Le sentinelle dettero l'allarme. L'altra cadde che già i corni suonavano. I soldati ch'erano per strada a cercare la spia accorsero verso le mura, mentre qualche ufficiale già impartiva ordini che s'accavallavano ad altri contrari. A quel punto un'altra pietra, ma questa partita da lì, un vicolo alle sue spalle, appena dietro le prime case di quel versante del burrone, cosa propria. Stessa traiettoria, solo opposta, un altro muro da superare, lo stesso posto dove finire, sotto il ponte. Si precipitò giù per le scale e corse in strada. I lanci di pietre s'erano infittiti da entrambe le parti, tutti verso il burrone. Arrivò trafelato il Generale, cercando di capire che stesse succedendo. Non ci mise molto a rinunciare.
- Fateli smettere! Fateli smettere immediatamente! -
Il braccio dell'ufficiale s'agitava minaccioso con il pugno chiuso, fino a quando qualcuno gliel'afferrò con una stretta forte, irriverente.
- No! -
- Ma che fate Ingegnere? - protestò stupito il Generale - Di che v'impicciate voi? -
- Dei fatti miei Signore. Il ponte è affar mio. -
- Che c'entra il ponte con tutto questo? -
- Già Ingegnere, che c'entra? - Il Governatore era appena arrivato scortato dalle sue guardie, le labbra piegate in un mezzo sorriso ironico.
- Me l'avete chiesto voi di finire il ponte, Signori. Ed è proprio quel che stiamo facendo. -
Sul viso del Governatore l'espressione di scherno rattrappì in una smorfia grottesca. Lui dovette trattenersi per non ridergli in faccia.
- Ci vorrà del tempo, forse mesi, ma se ognuno lancerà le sue pietre, tutte quelle che potrà, da questa e dall'altra parte, arriverete a colmare il burrone proprio in questo punto, tanto da livellarlo con l'altopiano; allora potrete finalmente passare e quello sarà il vostro ponte. -
- Ma è pazzesco. - sbottò il Generale - finiamola con questa pagliacciata! Ha un'idea di quante pietre servirebbero per riempire quella voragine fin quassù? Non possiamo mica uscire dalla città per andarcele a prendere chissà dove. Fuori c'è la malaria, il nemico. Quelle ch'erano qui intorno le abbiamo usate tutte per costruire le mura! -
- E a che vi servono più le mura? Demolitele e riempiteci il burrone, così proprio quel che vi divideva servirà ad unirvi. Sarà un progetto comune, così semplice che nessuno potrà attribuirselo, né cambiarlo. Solo pietre, e sfido chiunque a contare chi ce ne mette di più. -
Il Generale provò a protestare qualcos'altro, ma il Governatore con un gesto deciso lo zittì.
- Lei crede che possa funzionare Ingegnere? -
- Governatore, lei m'offende! Io sono il miglior costruttore di ponti, quindi il mio è il miglior progetto possibile. -
Il viso del Governatore tentò di forzare un sorriso.
- Bene Ingegnere! L'esperto è lei. -
Non disse altro e salutando con un leggero inchino del capo se ne andò, seguito dalle sue guardie, dal Generale e dall'immancabile codazzo di ruffiani. Il lancio delle pietre intanto continuava, senza che nessuno si nascondesse più, così che pure qualche sentinella aveva preso a tirare pezzi di merlatura. Nell'aria s'avvertiva palpabile l'euforia dei grandi momenti, quelli che dopo non è più lo stesso.
Stette ancora un po' a godersi lo spettacolo con un sorriso compiaciuto, poi si diresse a passo svelto verso la locanda. Salì subito in camera a preparare il bagaglio, che non restava mai in un posto più del necessario, tanto meno in quello, come se a rimanere ancora un poco, poi facesse più male andarsene. Rabi lo seguì discreto fin sulla soglia, tanto da spaventarlo appena gli si rivolse.
- Partite? -
- Sì, parto. Il mio compito qui è finito. -
- Non proprio Ingegnere. Ci sarebbe ancora qualcosa d'importante da fare. -
- Cioè? -
- Il ponte è ancora una scommessa, chissà se ci riusciremo, ma se dovessimo farcela dovrete venire all'inaugurazione! Quella tocca a voi. -
- Ma no, no... non vado mai alle inaugurazioni, sono così noiose. -
Fece per prendere il bagaglio ma quello gli si parò davanti.
- Verrete Ingegnere, vero? -
Che voglia d'abbracciarselo quel ragazzetto pieno d'entusiasmo, con tutta la vita davanti, una vita che in qualche modo gli stava consegnando migliore.
- E va bene, se proprio ci tieni, verrò. -
Senza aggiungere altro chinò lo sguardo ed uscì.

***


Era passato così tanto tempo che quasi non ci pensava più. Il messo che gli bussò alla porta aveva sul viso tutti i segni del lungo viaggio, ma riuscì lo stesso a sciogliersi in un gran sorriso mentre gli consegnava il plico sigillato. Dentro c'era l'invito ufficiale all'inaugurazione, con sotto la firma dei due Governatori. Aveva il bagaglio pronto, le poche cose di chi non si ferma. Partì subito.
Arrivò ch'era mattina, una bella giornata di sole. Per quanto avesse provato ad immaginare la città nuova, quello che aveva di fronte sembrava proprio un altro posto. Costeggiò la riva d'un grande lago azzurro, tanta luce riflessa da abbagliare. Quello era, scintillio. Di fronte la città, senza niente a nasconderla; case, tetti e finestre, spalancate. La piccola porta era tutto ciò che restava delle vecchie mura, un semplice arco di pietra grezza a far da soglia. I due soldati di guardia erano in alta uniforme, un po' ridicola nella rigidità del nuovo. Quando mostrò il salvacondotto gli sorrisero come si fa per uno scherzo.
- Venga Ingegnere, venga. -
Rabi gli corse incontro, provando a fare il saluto militare. Aveva gradi nuovi sulle spalline, stellette da ufficiale.
- È tutto pronto Ingegnere, aspettavamo solo lei. -
Si dettero la mano formalmente, cercando d'onorare i propri ruoli, ma la stretta si fece subito forte, gli sguardi dritti l'uno dentro l'altro e le labbra strette in una strana smorfia, qualcosa di trattenuto a stento. Camminarono per le vie della città senza dirsi altro, ma così vicini da sfiorarsi, quasi a diluire l'abbraccio che avrebbero voluto darsi.
Quando arrivarono vicino al burrone dovettero farsi largo tra la folla che s'accalcava sul ciglio. Oltre quella gente più niente, nessuna traccia delle vecchie mura, solo le due sponde libere, vicinissime. Dove sarebbe dovuto sorgere il ponte c'erano ancora i monconi, lasciati lì a fare da monito. Poco più in basso una montagna di pietre saliva dal fondo del dirupo fino al livello della superficie, unendo le due sponde come un ponte che invece di saltare, riempiva il vuoto che li aveva divisi.
Le autorità erano schierate al gran completo, l'abito della cerimonia a vestire l'opportunismo del potere. Era una festa di sorrisi, quelli allenati dei signori e quelli fiduciosi della gente; tutto uno stringersi di mani, in cui era facile distinguere i tanti che se l'erano consumate a lanciar pietre. Di fronte, sull'altra sponda, gli stessi sorrisi, le stesse mani.
Al suo arrivo ogni voce si spense e i suoni della festa si fecero silenzio teso, carico d'attesa. Il Governatore l'accolse porgendogli un drappo rosso con sopra una pietra. Dopo un goffo inchino spiegò ch'era l'ultima, e che toccava a lui. Inutile tentare un rifiuto. Quel momento l'avevano atteso come una liberazione e adesso ch'era finalmente arrivato lo offrivano a lui come cosa preziosa. Afferrò il sasso, e senza starci tanto a pensare caricò il braccio e tirò, con quanta forza aveva. Non l'avrebbe mai creduto, lui, serio professionista affermato, di provare tanto piacere mentre quella pietra gli schizzava di mano, andandosi a piantare fra le altre, con un tonfo secco, udito chiaramente in un silenzio perfetto.
Non capì. S'aspettava un boato, la folla esplodere in una gioia incontenibile, e invece niente. Silenzio. Nessuno si mosse, c'era qualcos'altro da succedere. Gli ci volle poco a capire che lo lasciavano fare a loro.
Di fronte al ponte s'era fatta avanti Noa, bella da lasciare senza fiato nel suo vestito bianco, l'abito immacolato delle spose.
Sull'altra sponda Hassan, impettito nella divisa da cerimonia, gli occhi lucidi d'emozione. Cominciarono a venirsi incontro piano, il primo passo incerto, poi gli altri sempre più decisi, fino a correre, le braccia spalancate, pronte a chiudersi in quell'abbraccio atteso da un tempo enorme, concluso finalmente da un bacio tenerissimo. Si tennero stretti, incuranti delle lacrime che gli si mischiavano addosso, e dell'urlo liberatorio della gente, che tutta prese a farsi avanti per finalmente toccarsi, da qualche parte là in mezzo, da dove per così tanto tempo li avevano tenuti lontani.

***


Nessuno sa se questa storia è vera, certo che è strana. Racconta di una città divisa in due e di un ponte impossibile. Narra dell'odio che la stava divorando, condannandola a morte, fino a quando il più grande costruttore di ponti l'ha salvata con qualcosa che dicono fosse amore.
Nessuno sa se questa storia è vera, ma se vera non è, allora c'è bisogno che lo diventi presto.

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