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Questo racconto era stato selezionato nei primi tre finalisti di un premio nazionale
dov'ero però risultavo vincitore con un altro racconto in una diversa sezione.
Per opportunità, l'ho dovuto quindi ritirare.
Sete
Subito, se ne accorse subito, nello stesso istante in cui aprì gli occhi. Mancava qualcosa. Non avrebbe saputo dire cosa, ma lo sentiva chiaramente in quella strana sensazione che s'era fatta certezza senza passare per un perché. Era come se gli avessero truccato il mazzo, portandogli via la carta buona, partita persa. Non faceva male, era solo un vuoto fastidioso, un buco nel pieno che c'era prima, impronta lasciata nella polvere sulla mensola delle sue cose.
Eppure intorno tutto come sempre. La prima luce d'una mattina d'estate già filtrava discreta tra le persiane schiuse e dalla cucina il profumo del caffè saturava l'aria ancora muta, negli ultimi spiccioli d'una notte cheta, prima del chiasso dei bimbi che ancora dormivano. I pochi suoni che riusciva a distinguere erano i sussurri del giorno appena alzato, il fruscio del mondo ancora in vestaglia.
Fu in piedi di scatto, senza indugiare tra le lenzuola come gli piaceva fare sempre. E' che aveva fretta, di cosa poi non sapeva, ma doveva fare presto a levarsi di dosso quell'angoscia.
Nel buio del corridoio nessuna sorpresa, c'era anche lo squarcio di luce in fondo, la porta spalancata della cucina, il centro viscerale di casa che già pulsava. Di fronte al tavolaccio sua moglie si muoveva disinvolta tra l'abbondanza della buona stagione. Non fu l'unica a sentirlo arrivare, il fiato grosso a fare la spia. Fece appena in tempo a voltarsi che gli erano già sopra, le mani addosso ad abbrancarlo per spingerlo in basso, la faccia prossima a terra per poterci arrivare meglio e poi tanti, umidi e caldi, ogni volta a fargli venire i brividi al petto. Ogni volta, i baci maldestri dei suoi figli.
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Il sorriso della sua compagna spiazzava sempre tutti, non ci si poteva abituare. Tornò la calma, anche se il più piccolo dovette staccarselo dal collo, due mani enormi a sfiorarlo appena nel porgerlo alla madre.
Poi furono le solite cose, il caffè versato nella tazza, la sedia spostata per farlo accomodare, gli occhioni languidi di Attila che scodinzolava muso a terra e il "Buongiorno" di sua moglie ch'era un piacere risponderle:
"Buongiorno" e fu allora che se ne accorse.
"Buongiorno" ed era proprio quello.
"Buongiorno", ma niente, non succedeva niente. Non un suono, un qualche rumore che gli vibrasse in gola. Seppe così cosa mancava. La voce, gli era sparita la voce.
Dopo il primo momento di smarrimento fu quasi una liberazione. Chissà che si credeva. In fondo sarebbe stato un fastidio trascurabile per lui che non aveva mai avuto bisogno di troppe parole per farsi capire. Uno sguardo gli era sempre bastato anche con Assunta, quella vecchia testona che già gli stava addosso col cucchiaio infilato in bocca a fargliela spalancare, che doveva guardargli in gola. Per vedere cosa poi, che era quasi cieca. Tant'è, sua suocera la stavano a sentire tutti, anche lui, tranne quella volta che finito l'accurato esame sentenziò sicura:
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Guardò sua moglie e scrollò le spalle, deciso a cominciare la colazione, ma rimase con la tazza a mezz'aria, la smorfia d'un sorso morto sulle labbra.
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Sapeva quanto fosse inutile, ma tentò lo stesso. Fece la faccia scura e scrollò il capo deciso, che quando lui diceva no era no. Si sforzò di provare, se non proprio parole, almeno qualche suono, ma niente, solo aria soffiata. E poi aveva ragione lei, mica poteva restare così per chissà quanto a boccheggiare frasi mute, gesticolandone il senso. Solo che il Dottore stava in Città e bisognava andare fino lì, mica veniva lui, anche a pagarlo bene. C'era da capirlo, la Città era lontana e niente strada, solo il vecchio sentiero, che non era proprio cosa per Dottori. Lui lo faceva una volta l'anno, col mulo buono. Andava a vendere quel poco che avanzava dal raccolto alla fiera del Santo per una manciata di spiccioli. Doveva stare attento a non farsi fregare, che poi con quei soldi ci doveva comprare quello che serviva in casa e nei campi. Anche lì c'era da stare attenti alle fregature, ma per quanto ci s’impegnasse i conti non tornavano mai e il mulo saliva sempre più leggero di quanto fosse sceso. In Città ci andava una volta l'anno. E bastava.
Quella che loro chiamavano Città era poi solo un grosso paese di campagna, case basse ammucchiate intorno ad un paio di campanili, ai piedi dell'ultima collina, dove sterminata cominciava la pianura. Da quando ci passava la strada d'asfalto la montagna s'era svuotata, tutti a buttarsi tra le braccia di un mostro camuffato da Sirena. Suo padre no, era voluto restare lì, senza farsi incantare dall'inganno di una ricchezza falsa, dal brillare dei lustrini. Ora riposava all'ombra del grande castagno dietro casa. Per sempre di quella terra, senza compromessi.
Lui invece per quella volta dovette rassegnarsi, altra generazione. Smise di protestare e impalato al centro della stanza lasciò che gli si affannassero intorno per i grandi preparativi. Gli riempirono la sacca con tutto quello che serviva, il pane fresco, il formaggio per lui e il salame intero per il Dottore, la borraccia dell'acqua, che faceva caldo e un sacco di altre cianfrusaglie che pesavano inutilmente, mica andava giù col mulo.
Dopo tutto quel trafficare improvvisamente si fermarono tutti. Sua moglie aveva preso dalla credenza la cassetta di famiglia, un piccolo bauletto di legno grezzo che con solenne lentezza posò sul tavolo, vi sedette di fronte e aprì. Dentro ben arrotolate una decina di banconote legate con lo spago grosso, e sparsi pochi anelli d'oro, ricordo di matrimoni antichi. Sul fondo qualche foglio bianco e delle buste. Una penna stava infilata tra le banconote; la prese, estrasse un foglio e cominciò a scrivere. Ora la sua lentezza non aveva niente a che fare con la solennità del momento.
Tutti le si erano fatti intorno a guardare nascere quei segni misteriosi sulla carta. Era una magia che aveva imparato da sua madre e lei l'avrebbe insegnata alla sua figlia più grande. Da loro scrivere era roba da donne, che gli uomini avevano da fare con la terra.
Piegò il foglio e lo porse al marito:
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Poi gli dette i soldi. Tutti.
Davanti alla porta erano pronte le scarpe buone, nere e ancora lucide di nuovo. No! Quelle no, non andavano bene per il sentiero e gli gonfiavano i piedi. Le avrebbe messe magari dopo, una volta arrivato in Città. Ma la sacca era piena e non ci stavano, così dovette scegliere, andare dal Dottore con gli scarponi che metteva nei campi o avere male ai calli. Indossò le scarpe buone con una smorfia. Che vergogna, per una scemenza poi. Suo padre non l'aveva mai visto un Dottore, una roccia lui.
Era pronto. Sulla porta ci fu un bacio per tutti, quello migliore a sua moglie, poi via, che se s'affrettava sarebbe tornato prima del buio.
***
Il sentiero saliva oltre la prima collina, poi ripido la scendeva e ancora saliva subito a scavalcarne un'altra. Chi l'aveva tracciato per primo doveva avere fretta, un taglio netto tra i monti, al di là della prossima cima a vedere cosa c'era dopo. Certe curiosità hanno bisogno di gambe buone.
Era poco più d'un lungo solco, stretto e aspro, duro di poca terra, tutta pietra sotto le scarpe e la suola sottile da marciapiedi che non perdonava niente, sentiva ogni sasso. La macchia diradava presto, lasciando alla roccia un ostinato monologo. L'ultimo albero lo carezzò quasi, la mano a sfiorarne la corteccia come per rubare quell'ultima ombra. Il Sole lasciato libero infieriva senza pietà, crudele come sa essere solo Madre Natura, la selezione per legge, che gli servono i migliori, e gli altri a fare da concime.
Sudava, e il fiato non era più quello di un ragazzino, ma forzò il passo lo stesso, che prima arrivava...
Fu un attimo, la testa a maledire il caldo, le scarpe lisce su un sasso instabile, proprio sul ciglio del sentiero, l'equilibrio perso quand'era a un niente dal vuoto. E cadde, rovinosamente cadde.
Il nero del nulla durò molto, tutto il tempo che gli ci volle per riaprire gli occhi al Sole che non bruciava più, ancora troppo basso sulla collina, nel tepore d'un giorno nuovo. Provò a muoversi, ma mentre lo faceva già gridava per la fitta violenta che gli dette il ginocchio. Della gamba vide poco, solo brandelli di stoffa e tonalità del rosso, il lento coagularsi del sangue che ancora gocciolava.
Certo forza ne aveva ancora, se la sentiva montare dentro, con la rabbia che arrivava ai denti, serrati forte sulla bestemmia che faticava a inghiottire. Sollevò lo sguardo a valutare la distanza dal sentiero. Non era molta, una decina di metri, poteva farcela. Se non fosse stato che suonava ridicola l'avrebbe potuta dire fortuna quello spuntone di roccia che gli aveva fermato la caduta, tenendolo sospeso sul dirupo. Se sporgeva il capo poteva vedere là in fondo la sua roba, persa nel volo. Il salame per il dottore, il pane per lui, la borraccia... Dio la borraccia! Aveva la bocca secca come arsa nel fuoco e l'acqua stava laggiù, persa a dar da bere alle spine dei rovi. Altra non ce n'era fino al paese. Per tutto il sentiero neanche un rivo, deserto fino al pozzo vicino casa che altrimenti ci sarebbe stato coltivato, invece niente, neanche le bestie a pascolare.
Con la gamba buona fece leva per sollevarsi, le mani come artigli a incollarsi alla parete per salirla con minuscoli gesti, fino in cima, adagiando un membro alla volta sul piano del sentiero, restando così steso a lungo, per raccogliere forze e morale. Il ginocchio non doveva essere rotto; con dolore, ma riusciva a piegarlo. Si rizzò ancora, malfermo ma in piedi. Avrebbe avuto bisogno d'un bastone, quand'anche l'erba lì attorno era cosa rara, ma lo stesso riuscì a fare il primo passo, e poi un altro, e un altro ancora. Sulla direzione nessun dubbio, via per la Città. Troppo lungo tornare indietro, e ammesso che ci fosse arrivato, tutto quel patire sarebbe andato perso, inutile pena.
Il Sole intanto continuava a fare il suo mestiere, bruciare. L'aria tornata rovente gli stillava gocce di sudore, tanto che si stupì d'avere ancora acqua da qualche parte.
***
Mise a fuoco le prime case che s'era fatta sera, brutti muri scoloriti e finestre ben chiuse, che il bagliore d'un lume vi s'intuiva appena. Stremato cercò una fontana, un rubinetto, qualunque gocciolare che facesse acqua, ma niente, per quelle vie nessuno aveva previsto sete.
Poca la gente per strada, tutta di fretta ad allontanarsi da quel pezzente che per referenza mostrava lo sguardo fiero del contadino di collina. Dalla tasca della camicia prese il foglio scritto da sua moglie e lo spiegò per bene, deciso a mostrarlo a un tipo fermo sul marciapiede, ma non riuscì ad arrivargli a meno di una decina dei suoi passi strascicati che a quello prese la fretta di sparire dietro la prima traversa.
Successe ancora, tutte le volte che provò ad avvicinare qualcuno, e chi restava lo copriva d'insulti, per il fastidio che dava, una cosa insopportabile, come un fetore. Fu nella piazza di una chiesa che un vecchio non si mosse, fissandolo in silenzio. Forse fresco di predica stette ad aspettare che gli arrivasse tanto vicino da poter leggere che c'era scritto in quella cartaccia. Per quello ci volle poco, lungo fu lo sguardo con cui lo scandagliò dopo. Servirono un paio di passate, poi balbettò una serie di direzioni, strade, locali, punti di riferimento, una cosa dettagliata, ma assolutamente inutile per lui che della Città non sapeva bene neanche il nome. La coscienza a posto il vecchio se la portò via senza attendere replica, aveva voglia lui a gesticolare.
Era stremato, la gamba ormai rigida se la tirava dietro casa dopo casa, e un altro paio d'incontri inutili lo convinsero a cambiare metodo. Il prossimo lo prese alle spalle, il foglio sventolato in faccia. S'aspettava di peggio, ma dopo un attimo di sorpresa quello lesse, poi senza neanche guardarlo indicò il portone che avevano di fronte. Rimase immobile, con la faccia da idiota.
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Provò a ringraziare, ma a gesti non ci si riesce con chi sta andando via, le spalle come un sipario calato.
Si fece coraggio e dal portoncino salì le poche scale. Fu una cosa lunga, aggrappato al passamano, ogni tanto a riprendere fiato. Ancora un paio di gradini e non li avrebbe finiti. L'ultimo fu una vittoria, che se ne avesse avuto la forza avrebbe esultato, braccia al cielo.
Sulla porta una targa d'ottone lucidata da poco, come d'ottone lucido era anche il campanello che si mise a maltrattare, quasi che spingere più forte servisse a farsi aprire prima. Allo scatto del chiavistello seguì un breve spiraglio, da dove la Segretaria spuntò appena, professionalmente sospettosa.
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Era senza saliva per sputare, altrimenti l'avrebbe fatto, e mica per terra. Ma tutto quello che riuscì a fare fu darle il foglio ormai a brandelli.
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Lo spiraglio della porta divenne più ampio, abbastanza per vederla bene. Era bella, molto più di sua moglie, trent'anni, fianchi stretti e trucco sotto gli occhiali. Gli fece una certa impressione, non era abituato.
Lei doveva essere assai motivata dalla ferma convinzione di assolvere un qualche compito pietoso, nobile e indispensabile. Lo si capiva chiaramente dalla smorfia di disgusto che cercava di celare dietro un sorriso forzato.
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"No! No! Ma che Ospedale! Quello è solo un graffio, a casa ci pensa Assunta. La voce, vede la gola, è questa che deve curarmi il Dottore... per favore!"
Non fu proprio sicuro che la Segretaria avesse capito i suoi gesti, s'era fatto prendere dall'ansia, era stato caotico, esagerato, le aveva persino preso la mano nelle sue per implorarla. A quel punto il disgusto del bel viso truccato fu confuso da un moto di sgomento, una contrazione disordinata di tutti i muscoli facciali. Paura. Le lasciò la mano e provò a calmarsi, rallentare l'affanno per farlo tornare qualcosa che somigliasse a respiro. Funzionò. Anche il viso di lei si rilassò, schifo a parte. Avrebbe voluto chiederle un bicchiere d'acqua, solo un po' d'acqua che non ce la faceva più, ma quella non gli dette tempo, tagliò corto:
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Gli aprì la porta della sala d'aspetto e sparì dietro la scrivania. Che se la vedesse il Dottore con lui, il gioco delle competenze ha regole rigorose, sempre convenienti.
La stanza era accogliente quanto può esserlo la gestione d'un bilancio, l'arredamento è spesa viva senza introiti, soldi buttati via. Alle pareti imbiancate da troppo tempo stavano appese stampe messe lì a simulare quadri, cornice compresa. Le sedie erano spaiate, non più di quattro uguali, poggiate alle pareti; in mezzo stava storto un tavolino basso, carico di riviste sgualcite, vecchie di mesi. Un paio di finestroni davano su un cortile pieno d'erbacce, forse un tempo giardino, ora terra sprecata. Quello, più che il resto, gli fece impressione.
C'era gente, una decina di persone pazientemente sedute ad aspettare il proprio turno, tranquilli, anche un po' annoiati prima che entrasse lui. Al suo ingresso ogni cosa si mosse quasi perdesse aderenza, come per un colpo di mare quand'è bonaccia, tutto si rovescia, che nessuno ha il tempo di rizzare niente. Le riviste presero a girare, sfogliate nervosamente, i finestroni ad aprirsi e chiudersi, le sedie lasciate e prese. Persino i quadri raddrizzati, ch'erano tutti storti.
Provò a restare in piedi vicino alla porta, per non dovere scegliere vicino a chi sedere, ma non resistette a lungo. Il dolore poteva sopportarlo, erano le gambe che non reggevano, e la testa, con quelle vertigini, un niente dallo svenire. Non scelse, semplicemente s'accasciò sulla sedia che aveva più prossima, proprio vicino alla donna col bambino, che d'istinto strinse a sé. In un silenzio imbarazzante s'udiva solo il suo respiro affannoso, rumore fastidioso.
S'abituarono presto. Passata l'onda tutto tornò calmo, il lento rollio del consueto. Il chiacchierio, dapprima sommesso, si fece sempre più ardito, fino a tornare amabile conversare, niente che lo riguardasse.
Passò del tempo, ancora, poi fu il suo turno.
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La segretaria chiamò una volta sola, quasi senza affacciarsi, come per tutti gli altri. In qualche modo s'alzò, e con la stessa misteriosa forza arrivò al corridoio dove davano porte bianche chiuse, tutte tranne una, bianca anch'essa, ma aperta. Entrò.
Seduto in poltrona, dietro ad un'enorme scrivania ingombra di libri e scartoffie, stava il Dottore, chino su dei fogli scritti a mano, la penna pronta, sospesa a mezz'aria. Era calvo, occhiali leggeri, grasso e con l'aria stanca, ch'era tardi. Smesso il camice bianco e fuori da quello studio sarebbe stato difficile dirlo medico. Fece ancora un paio di scarabocchi, poi posò la penna e spense la sigaretta in un portacenere colmo di mozziconi. Finalmente sollevò lo sguardo e glielo passò addosso, fermandosi al naso, appena prima degli occhi.
L'ultimo. Ancora questo e per oggi basta. Di solito quattro pillole da scrivere su una ricetta, la pacca sulla spalla e via. Invece no, questo era un problema.
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La pausa doveva servire a una risposta. Lui provò a fare segno di no, che non era lì per la gamba. La gola, si toccò la gola, ma non bastò.
Il Dottore gli indicò la poltroncina che aveva di fronte:
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Al contatto del tessuto morbido ebbe la certezza che non avrebbe avuto più la forza di rialzarsi da solo. Non se ne preoccupò, tanto ormai era dal Dottore.
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Doveva fare con calma, avere pazienza, che non era facile per nessuno capire chi non parla. Provò a spiegare in qualche modo, le mani a fargli da voce. Il Dottore rimase immobile, sprofondato nella poltrona, continuando a fissarlo appena prima degli occhi. Fu paziente, lo lasciò fare per un paio di minuti buoni, poi cominciò a fare il suo mestiere:
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Lui smise di gesticolare, la faccia inconfondibilmente tonta di chi non capisce.
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Certo che aveva qualcosa. I soldi! Se ne ricordava solo adesso, ma forse era ancora in tempo. Non poteva averli persi nel cadere, che li aveva messi al sicuro. Si piegò, le mani a tendersi fin quasi a terra su quel che restava di un calzino. Dovette strapparselo dalla pelle intrisa di sangue ormai coagulato per prendere le poche banconote che c'erano nascoste. Le posò sulla scrivania in un angolo sgombro, facendo attenzione a non sporcare fogli e copertine. Sul viso impassibile del Dottore comparve una breve smorfia di disgusto, subito corretta da un qualche sorriso. Prese i soldi, li contò due volte, poi aprì un cassetto e ce li buttò dentro.
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Tornò dietro la scrivania, sedette comodo e prese il telefono.
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Lui aveva ormai solo la forza di fare no col capo, un movimento continuo, ossessivo e inutile, che quello stava già facendo il numero. Almeno gli avesse dato un po' d'acqua. Acqua per l'amor di Dio.
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Riattaccò e guardandolo finalmente negli occhi s'esibì in un gran sorriso soddisfatto, di quelli che aspettano un grazie riconoscente. Lui però continuò a scrollare il capo sempre più debolmente, mentre in lontananza già s'udiva la sirena.
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Lo presero senza che riuscisse a opporre nessuna resistenza. Fu sdraiato in barella, legato per bene e poi via, dentro l'urlo delle sirene. Distingueva ormai solo poche ombre tra la nebbia che gli era scesa davanti, dentro c’erano le sagome scure dei barellieri che lo spingevano tra file di luce opprimente e quelle dei pochi infermieri che lesinavano l'indicazione d'un piano, d'un reparto o dell'ennesimo corridoio senza neppure degnarlo d’uno sguardo.
Quando le ruote smisero di cigolare fu silenzio, solo qualche colpo di tosse e lontano un lamento, fastidioso quanto il resto.
Passò ore a fianco d'un muro, ogni eco di passi a riaccendere la speranza, la quiete che seguiva a spegnerla.
Il camice bianco gli si parò davanti all'improvviso, senza che lo sentisse arrivare, mocassini di marca, troppo leggeri per i suoi sensi spenti. L’infermiere arrivò dopo, ciabattando mollemente; annotò qualcosa sul foglio che teneva in una grande cartella.
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Il Dottore osservò con un certo scrupolo quel po' di viso che sporgeva dal lenzuolo verde, abbastanza perché i loro sguardi s'incrociassero. Lui allora raccolse le ultime forze e ci provò ancora. Lo faceva sempre con le sue bestie, le guardava dritte negli occhi, proprio dove arriva ancora chiaro l'eco dell'anima e, sempre, capiva. Che fosse paura, febbre o stanchezza, come pure fame e sete. Non era poi difficile. Se almeno questo ne fosse stato capace.
Il Dottore rimase immobile ancora un istante, poi l'espressione seria gli si frantumò in un sorriso sguaiato, la voce incrinata dall'ironia:
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All'infermiere scappò una risatina subito repressa.
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L'infermiere strappò il foglio, l'accartocciò e lo lanciò in un cestino lì vicino.
Lui rilassò il petto, lasciando andare il poco fiato che c'era ancora, più nessun battito dentro, come uno smettere. L'ultima cosa fu voce, quella del Dottore:
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Giovanni Ciaravolo © Copyright 2012 Tutti i diritti riservati