Giovanni Ciaravolo

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I miei racconti


Premiato come finalista al Primo Concorso Letterario Nazionale dell'ENPA
(Ente Nazionale Protezione Animali) di Grosseto Edizione 2005/2006

La bestia



Un lampo improvviso squarciò il buio, interrompendo la giovane notte ancora intenta a stendere le sue ombre sui colori smorti di un giorno appena passato. Elettrica la luce invase la strada deserta, animando ogni forma d'un sussulto violento, qualcosa d'irreale, svanendo poi senza le sfumature dello spegnersi, l'improvviso che lascia tutto un po' più immobile di prima. Dopo rimase come un niente sospeso nel persistere del silenzio, la vuota attesa del prossimo tuono, insieme ansia e liberazione.

***


Affrettò il passo, maledicendo quell'idiota di Luca. Proprio adesso doveva mettersi a fare l'orgoglioso, per così poco poi. Ma gliel'avrebbe fatta pagare cara, altro che piantarla così in mezzo alla strada. Se n'era andato, sgommando come un pazzo.
Tanto torna, s'era detta, e lo aveva anche aspettato per un bel po', come una stupida su quel marciapiede a prendere freddo, dicendosi dai che non ti può mica mollare così, ora arriva con la sua coupè e il sorriso di chi ha scherzato. E invece niente, sparito.
Un po' se l'era cercata però. Luca non s'arrabbiava mai, ma stavolta... non ricordava manco più perché s'era messa a gridare, perché avesse preteso che si fermasse proprio lì e fosse scesa, sbattendo la portiera. Era stata certo qualche sciocchezza, capricci. Solo che stavolta Luca non era stato al gioco, non l'aveva pregata di risalire, niente coccole, solo quella sgommata e qualcosa che non aveva capito, urlata tra il rombo del motore.
Ora si sentiva una cretina, tutta in tiro col completino leggero e il trucco pesante a quell'ora in una periferia deserta, lontana chilometri da casa, e niente mezzi. Forse un taxi, magari telefonando... sì, ma dove la trovava una cabina, che il cellulare era in macchina? Un bar aperto poi, manco a pagarlo... che razza di posto. Almeno aspettasse a piovere, ch'era senz'ombrello.

***


Le prime inesorabili gocce le affogarono la debole speranza d'arrivare a casa prima che diluviasse. Colpi sempre più forti sul marciapiede, acqua e polvere a schizzarle fango sulla pelle lucida delle scarpette e la trama fitta delle calze a rete. Acqua, sui capelli in piega e permanente, sullo spolverino di seta fine, sulla borsetta firmata, tenuta in alto dalle mani ben curate, nel vano tentativo di ripararsi.
Gettò lo sguardo intorno, smarrita nell'affannosa ricerca di un qualche riparo, che fosse un portico, il balcone d'un palazzo, o solo la tenda di un negozio. Ma niente, nulla del genere faceva parte dell'architettura di quella periferia.
Le dovette sembrare quasi un miracolo la fessura di quel portone dimenticato socchiuso tra la penombra di certe impalcature che fasciavano una palazzina fatiscente, sventrata per farne chissà cosa.
Il vecchio portone di legno non oppose alcuna resistenza, le bastò spingerlo per entrare.

***


Era buio lì dentro, un buio pesante, e il freddo poi. Brividi improvvisi la scuotevano come a prenderla a sberle, però almeno stava all'asciutto. Doveva essere un grande stanzone quello, se i pochi passi che fece si schiantarono in un'eco cupa, da far paura. E poi camminare era un'impresa coi tacchi alti. Ma che c'era per terra? Dovevano essere calcinacci duri e spigolosi, misti a detriti molli e viscidi. Che schifo! E quell'odore, puzzo di latrina, o almeno così immaginava il tanfo che dovevano avere certi posti. Se solo avesse potuto vedere qualcosa.
Si fermò, restando immobile ad ascoltare l'urlo del temporale, cercando di cogliervi un cedimento, l'accenno di un'indecisione che facesse sperare nel ritorno della quiete, ma il vento continuava a urlare rabbioso tra i tuoni che squassavano l'aria. Tentò di ravviarsi i capelli bagnati passandoli tra le dita, poi tentoni cercò il pettine nella borsetta che portava ancora a tracolla, provando così a rilassarsi, per disporsi alla lunga attesa.
Fu solo allora che la sentì.
Non percepì esattamente un suono o un qualche rumore, ebbe solo la netta sensazione di una presenza, qualcosa che stava lì con lei, nel buio. S'irrigidì, tendendo ogni muscolo nella fissità della paura, trattenendo il fiato, come ad evitare ogni movimento per confondersi con la notte, annullarsi.
Gli occhi le si erano abituati alla mancanza di luce, abbastanza da farle scorgere un'ombra a pochi metri da lei, qualcosa che si mosse. Poteva sentirne il respiro, tanto era vicina, fino ad avere la certezza che fosse una bestia, non avrebbe saputo dire quale, ma certo una schifosa, orribile bestia;

***


Oddio, che è? Dio, Dio sta' buona. Niente, non è niente. Se sto ferma non mi fa niente. Ma che è? Dio mi ha vista! Gli occhi... mi guarda. Ma che bestia è? Oddio ringhia. Luca! Luca... maledetto figlio di puttana... Luca!

***


La cagna si ritrasse verso l'angolo dove teneva i piccoli, ancora ciechi e sporchi di parto. Vi si parò davanti, decisa e terrorizzata, scoprendo i denti bianchissimi che scintillarono al buio, ultimo avvertimento.
La donna non si mosse, solo chiuse gli occhi e con le labbra dure, appena schiuse, urlò con quanto fiato aveva in gola, la voce contratta dall'isteria, senza veramente sperare che servisse a qualcosa, senza credere che qualcuno la potesse sentire in quel deserto ostile popolato di fantasmi. Gridò come se l'orrore le traboccasse dalla gola, rigurgito incontenibile, lungo più di quanto avesse nei polmoni e nello stomaco. Sembrava non dovesse finire mai, fino al tonfo sordo del portone che si spalancava.

***


Cos'è stato? Hanno aperto. Chi c'è lì? Chi è, non si vede un accidente con tutta quella luce. Luca... sei tu? No, Luca non è, troppo alto. Dio, come al cinema, proprio al momento giusto. Pure belloccio... accidenti, sto tutta in disordine.

***


Il chiarore pur fioco della strada ruppe l'oscurità nell'atrio, dando corpo alle ombre, ritracciando linee, piani e curve di uno spazio tornato reale, fisicamente palpabile. Rannicchiata nel suo angolo la cagna prese a ringhiare più forte contro l'uomo che le si avvicinava deciso, inutile minaccia a chi sa di essere il più forte. Il primo calcio le arrivò sul muso. La cagna guaì, scartò di fianco e tornò a ringhiare, riscoprendo i denti, ora velati di sangue. Inesorabile partì un altro calcio, preciso anche quello, e l'abbaio si fece gemito.

***


Restò impietrita contro il muro,
incapace di qualsiasi cosa, lo sguardo fisso sul bastardo che guaiva, sanguinante. Non poteva farci niente, aveva il terrore delle bestie. Che fossero ragnetti o tigri, farfalline o elefanti. Bestie. Ansia che sale, mani gelate e brividi alla schiena. Quello menava però, altro che Luca. Già, Luca. Diceva che avrebbe dovuto prendersi un cucciolo, che le sarebbe passata, uno qualsiasi, come quelli sporchi e informi che erano rimasti quasi immobili nell'angolo, abbandonati dal bastardo che ad ogni colpo si spostava ancora un poco, inseguito da quello che continuava a tirare calci e manco li aveva visti.

***


Niente, non serviva proprio a niente accanirsi con tanta furia, come a volerlo ammazzare quell'animale, per risolvere tutto in poco tempo, quasi  fosse un'esecuzione; ma l'uomo esitò un attimo di troppo per riprender fiato, dando alla cagna il tempo di uno scatto, un balzo disperato verso la luce della strada, l'uscita guadagnata in un attimo, sparendo nella notte.

***


Finito, era tutto finito. Ora che poteva rilassarsi sentiva le gambe tremare e una debolezza strana, come se stesse per svenire, ma si fece forza, voleva ringraziare quel bel ragazzo come si deve, se lo meritava proprio. Riuscì a muovergli qualche passo incontro, provando a esibire il miglior sorriso che le riuscì, qualcosa che le morì presto sulle labbra, gelato dallo sguardo che si trovò di fronte.

***


Ma che c'ha da guardare così? Gli occhi, toglimi quegli occhi di dosso, che mi toccano. Quella smorfia... forse sorride, macché sorride... ghigna. Ma perché Cristo non dici niente? Comunque è meglio che vada, grazie di tutto, è stato proprio gentile. Ora però la saluto, sono proprio in ritardo, e poi non piove mica così tanto. Ma, mi sente? Capisce cosa dico?... e adesso che fa? Dio che fa?

***


Quello non si voltò nemmeno, allungò un calcio al portone che tornò a chiudersi con un tonfo sordo, il gesto di un attimo, quanto bastò perché tutto tornasse a spegnersi.
Sentiva ormai di non avere più forza, di non potere reagire con nessun muscolo, nessun suono, solo riusciva a piangere lunghi singhiozzi muti. Non lo vide avvicinarsi ma ne sentì chiaramente il respiro affannoso sul collo, l'odore nauseante, selvatico, le mani viscide addosso a violentarle l'anima, che poi sarebbe toccato al resto.
Fu a quel punto che l'uomo si bloccò, prima ancora di cominciare. Fuori l'urlo sgraziato di una sirena, dapprima lontano, poi sempre più forte; poteva essere qualsiasi cosa, un'ambulanza, i pompieri o qualche pattuglia che andava chissà dove, non certo da loro, persi e nascosti nel buio di un palazzo diroccato in periferia. Eppure quel suono fece trasalire l'uomo, tanto feroce quanto vile. Fu questione di poco, la presa che s'allenta quel tanto che basta alla disperazione.

***


Afferrò una di quelle mani schifose, unte e sudate, e ci affondò i denti, come a volerne staccare un pezzo. Strinse, strinse fino a sentire male e poi strinse ancora, non fosse bastato. Sentì dolce il sapore del sangue, forte la certezza che non fosse il suo. Quello urlò, un urlo lungo quanto le riuscì di tenere la stretta, un'eternità prima di mollare, che non ce la faceva più.

***


Il grido dell'uomo si fece lamento. La scaraventò a terra in un ultimo gesto di rabbia, grugnendo bestemmie. Lei tirò fuori tutta la voce che aveva in corpo e qualcosa di più, nessun suono articolato, nessuna parola, solo fiato a far tremare la gola. Dovette bastare. Quello spalancò la porta e sparì correndo in strada.
Trattenne il respiro seguendo il rumore dei passi che s'allontanavano, sempre più deboli, fino a confondersi con la pioggia, come sciolti tra le pozzanghere.
Seduta a terra con le spalle al muro s'abbandonò a un pianto vero, di quelli lunghi, che durano fino a che c'è roba da buttar fuori.

***


S'era quasi calmata quando vide l'ombra scura proiettarsi sul pavimento attraverso il portone aperto. L'ultimo singhiozzo le morì in petto, proprio nel cuore, quasi a fermarlo.
La cagna s'affacciò indecisa, fradicia di pioggia, indugiando sull'ingresso. Tremava di freddo e di paura, ma vedendola rannicchiata in terra si fece coraggio, non era l'uomo che tirava calci. Entrò lentamente, diretta verso l'angolo dove aveva i cuccioli, passandole lontana quanto più poteva. Lei la seguì con lo sguardo, senza muoversi, immobile.
I piccoli stavano bene, goffi e maldestri s'agitavano per la presenza ritrovata della madre. Le bocche schiuse s'affannarono subito a cercare i capezzoli gonfi di latte, ma dovettero aspettare ancora un poco. La cagna li annusò appena, poi curiosa, le orecchie basse, fece qualche passo verso la ragazza che aveva ripreso a singhiozzare. S'avvicinò, come a prendere coraggio da quel dolore, fino a sfiorarle i capelli col muso, poi con la dolcezza di una madre le leccò il viso rigato di lacrime, quasi a volergliele asciugare.
Fu lì che alla ragazza successe qualcosa, da dentro, che le sciolse un nodo. Finalmente. Sentì forte il bisogno di tendere la mano in una carezza su quel musetto di bastardina, fino a riuscire ad aprirsi in qualcosa che sembrava proprio un sorriso. Poteva smettere di piangere adesso, che la bestia era andata via.


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