Giovanni Ciaravolo

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I miei racconti


Questo racconto è stato inserito nell'Antologia "Vivere il mare" Terza edizione
pubblicata dalle edizioni
"Tigullio-Bacherontius" nel 1998


L'Americano

La sagoma scura dello scafo solcava lentamente la pacata distesa azzurra, come se volesse inciderla per sempre. Durava il tempo di un'illusione, poi il mare impassibile tornava a chiudersi dietro l'affannarsi dell'elica, inghiottendo la breve scia di quel passare. Lontano, un pallido sole s'adagiava sfinito là dove non è più cielo e ancora non è mare, in quell'effimera linea che è l'orizzonte. Solo il rombo del motore scalfiva la pace d'un tramonto perfetto, di quelli che si mettono da parte, tra le poche cose da tenere.
La barca scivolava ritta, senza alcun rollio, quasi impettita, offesa per il cullare negato dall'assenza delle onde, sopite nella bonaccia d'agosto. A poppa Paolo riempiva l'ennesimo ago per il padre, che chino sulla rete disegnava gesti antichi, misteriosi arabeschi sulle maglie a brandelli che tornavano trama fitta e regolare sotto quelle mani veloci, ricche d'esperienza. Il filo s'avvolgeva lentamente, ignorato dallo sguardo di Paolo fisso a Ponente, catturato dall'esplosione di colori che il sole stava versando su cielo e mare, vecchio artista impegnato a strappare l'applauso d'un istante di meraviglia.
Era stata una giornata come quelle che i vecchi pescatori raccontano in banchina, con la calma rassegnata di chi ha la vita segnata dal mare, cicatrici da mostrare orgogliosi, che non è roba da tutti. E lui, ancora ragazzo, avrebbe raccontato di come spingeva la corrente quella notte, acqua che a vederla sembrava stagno, e invece era mare, forte e capriccioso trascinava dove voleva, e serviva a poco dar sotto tutto il timone. Fu un attimo finire sul banco di corallo, col comandante a dire "dai che passiamo, fila 'sto cavo a dritta, presto, mettete la bozza, e dagli a quel dannato motore, porco..."
Di tutte le disgrazie che possono capitare a una rete, quella d'abbracciare un muro di corallo è la peggiore, e con quel poco che si riesce a tirare a bordo non bastano tempo e mestiere a ripararla, ci vuole dell'altro e bisogna mettercelo del proprio, fosse anche solo per non darla vinta a quel mostro d'acqua.
Restarono afferrati per tutto il giorno a recuperare un metro alla volta, coi cavi a picco e la barca trincata a lottare ad ogni scrollone che dava il verricello per non farsi tirare a fondo. Poi verso sera un colpo più forte, l'ennesima sbandata e la poppa che finalmente si sollevava sulla linea d'acqua, abbastanza da tornare a galleggiare. A bordo grida euforiche e bestemmie dure, tensione che usciva dallo stomaco come una dolorosa liberazione.
Ma sottrarsi alla morsa del corallo non bastava, che a bordo non avevano neanche un pesce, niente da portare a terra. Cambiarono rete in fretta, anche se veniva tardi per fare mercato, e calarono decisi verso il porto, che è vergogna tornare a mani vuote.
Fu dunque per caso che quell'ultima barca stava tirando cala fino al tramonto, col comandante seduto a timone, gli occhi pesanti di sonno e il marinaio chino a cucire. Paolo era l'unico in piedi a poppa, rapito dal mare che dava spettacolo. Così poté sentire, confuso dal rumore del motore, quel verso strano che subito gli sembrò il richiamo d'un gabbiano, solo più modulato, come la voce d'un uomo che grida.
Incuriosito guardò meglio in mare, verso il punto da dove sembrava arrivare l'urlo ora più chiaro, tanto che riuscì a capire: ''Aiuto... aiuto!''.
Tra gli ultimi bagliori di luce gli sembrò di vedere qualcosa, forse un braccio che s'agitava, forse un'ombra, o cosa diavolo fosse non stette lì a riflettere, corse in timoniera e tirò indietro la leva dell'acceleratore.
- Un uomo in mare, un uomo in mare! - gridò.
Il comandante scattò in piedi guardandolo severo, ma la faccia del ragazzo contratta in una smorfia tirata lo convinse a fermare l'elica.
Ora che il motore girava al minimo si distingueva chiaramente la voce d'un uomo, e guardando bene si riusciva a scorgere qualcosa a una cinquantina di metri sulla dritta. L'uomo in mare tentò di raggiungere la barca che aveva perso completamente l'abbrivo, ma le poche bracciate che lo separavano dal peschereccio dovettero sembrargli infinite. Stremato rinunciò a nuotare tornando a chiamare con tutta la voce che gli restava.
Manovrare in pesca è pericoloso, basta poco per finire coi cavi nell'elica, ma non c'era tempo da perdere, quell'uomo poteva cedere da un momento all'altro. Il comandante non esitò, elica indietro piano e timone sotto poco ad accostare. Il padre di Paolo aveva già pronta la cima che lanciò alla cieca appena sembrarono abbastanza vicini. L'uomo nel buio non poteva vederla ma la sentì cadere accanto e tentoni, annaspando, vi s'aggrappò con la forza della disperazione. Da bordo cominciarono a tirare piano, fin sotto bordo. Dovettero imbarcarlo di peso, che ormai esausto non era in grado di aiutarsi a salire.
Paolo non se lo sarebbe scordato mai più, una montagna bianca spaurita, gli occhi rossi persi nel vuoto. Era in costume, un ragazzo sulla ventina alto quasi due metri, un fascio di muscoli senza un filo di grasso, i capelli biondi tagliati corti, a spazzola. Impressionava quel corpo imponente sotto le luci dei fari di bordo che ne esaltavano il biancore della pelle rattrappita dalla lunga permanenza in mare. Tremava. Lo ripararono con una coperta presa da basso che puzzava di pesce e di nafta, gli odori del loro mestiere.
Non gli chiesero niente, che non era quello il tempo delle domande. Subito l'accompagnarono in cucina, sorreggendolo in due, tanto era malfermo sulle gambe. Gli diedero della carne in scatola e qualche galletta, mentre scaldavano un generoso bicchiere di vino zuccherato, il poco che avevano. L'uomo divorò tutto in un paio di bocconi e tracannò il vino con un lungo sorso. Il peggio era passato.
Lasciarono aperta la dispensa, insistendo perché si servisse pure, senza fare complimenti, poi lo lasciarono tranquillo e si prepararono a salpare che dovevano portarlo a terra, al diavolo la pesca.
Appena misero la rete a bordo via, a tutta forza verso il porto, lontano un'ora del loro cammino, il lento arrancare d'un peschereccio.
Il Comandante chiamò subito la Capitaneria con la radio di bordo per avvisare terra. Chi cercava un giovane grande e grosso poteva stare tranquillo, l'avevano loro, sano e salvo.
Aspettarono in timoniera che l'uomo si decidesse a salire, pieni delle tante domande che fremevano per avere risposta. Quando finalmente arrivò lo accolsero con dei mezzi sorrisi imbarazzati, restandosene muti a guardarlo. Ora indossava un giubbetto di Paolo che aveva trovato appeso in cucina, di qualche taglia troppo piccolo per lui, ma sufficiente a coprirlo un poco. Aveva smesso di tremare e lo sguardo s'era fatto presente; lo passò rapidamente su ogni cosa, posandolo poi davanti a sé, oltre il vetro, dove la prua puntava la costa.
- Quanto manca? - chiese all'improvviso.
- Una mezz'oretta. - mentì il comandante. Anche così dovette sembrargli un'enormità.
- Non si può andare più forte? -
Il comandante scrollò la testa. Solo allora s'accorsero del suo marcato accento straniero.
- Di dove sei? - riuscì a chiedere Paolo, vincendo la soggezione che aveva preso tutti.
- Americano - rispose l'uomo con una chiara punta d'orgoglio. Disse anche il posto, ma non lo capirono. Fecero le presentazioni, stringendosi la mano che l'Americano porse mollemente, tanto per sbrigare una formalità. John, disse senza convinzione, e poteva essere qualsiasi altro nome, tanto. Nonostante l'accento, parlava bene italiano. Spiegò che stava a Bologna da un paio d'anni per studiare, non disse cosa.
Fu il comandante a chiedere:
- Allora John, cos'è successo? -
Quello distolse lo sguardo e scrollò le spalle, ma aveva voglia di parlare, forse per via del vino, e cercò di spiegare:
- Ma niente! Ero in spiaggia stamattina. Volevo nuotare, sono andato al largo. Non so quanto tempo, sai, per vedere dove arrivavo. Quando mi sono voltato per tornare la spiaggia era lontana, piccola piccola. Non so, non si avvicinava più. Ho continuato a nuotare, nuotare, ma invece d'arrivare ero sempre più lontano. Poi ho smesso, tanto prima o poi sarebbe passato qualcuno a portarmi a terra. -
- Sì, qualcuno - protestò Paolo - se non ti sentivo io, te la saresti vista proprio brutta. -
- Non passava la notte. - sentenziò suo padre. - Con quella corrente poi... -
- Ma no! - protestò l'Americano - Andavate piano, se non mi sentivate, poche bracciate e m'attaccavo al cavo. -
Stava meglio l'Americano, il sangue era tornato a scorrergli caldo in corpo e l'energia ritrovata gli aveva fatto già scordare la fatica, il fiato corto e le braccia che non partivano, dure e pesanti come quelle d'un pugile picchiato, altro che attaccarsi al cavo. Ora, con i piedi ben piantati in coperta, la pancia piena e il sedere all'asciutto sembrava solo seccato che nessuno l'avesse visto prima.
Tornò a guardare fuori, verso terra, poi uscì senza dire più niente. Si mise a prua, lo sguardo dritto davanti a sé.
- Ma è scemo? - chiese furioso Paolo - va a finire che dobbiamo chiedergli scusa per il ritardo! -
Il comandante gli scompigliò i capelli con una vigorosa carezza.
- E' colpa dello shock - provò a spiegargli sorridendo - non si rende conto di cosa ha rischiato. Gli passerà. -
Paolo se ne andò imbronciato a poppa, dal padre che s'era tornato a chinare sulla rete strappata. Teneva lo sguardo fisso a prua dove stava l'Americano e se lo guardava di nascosto. Il padre lo richiamò un paio di volte, poi prese a riempirsi gli aghi da solo.
Accostarono in banchina per evitare la manovra d'ormeggio, cosa troppo lunga per la fretta dell'Americano. A terra la solita ressa, gente curiosa che in vacanza al mare si gode lo spettacolo dell'uomo che torna con la preda. Pescatori e pesci diventano goffe comparse davanti a obiettivi morbosi per una lotta alla sopravvivenza così fuori dal tempo.
Tra quella confusione l'Americano fece in un attimo. Appena la barca appoggiò al molo s'alzò sulla prua e con un salto fu a terra. Paolo lo seguì con lo sguardo finché non sparì tra la gente, senza che si voltasse, neppure per un ultimo sguardo, un cenno di saluto, niente.
Il comandante s'avvicinò al ragazzo che fissava impalato il punto nel buio che aveva inghiottito l'Americano.
- Prepara le cime che andiamo all'ormeggio. -
- Se né andato. -
- Certo che se né andato. Che ci stava a fare qui? -
- Ma poi torna? -
- Forse. -
- S'è portato via il mio giubbotto. Magari domani starà meglio e me lo riporta. -
- Magari. Ma adesso abbiamo da fare. -
- Oh sì che torna. Adesso è tardi, aveva fretta. -
- L'ormeggio Paolo!- ordinò il comandante, provando a indurire la voce quel tanto da farle assumere un tono di rimprovero, senza però riuscirci di fronte a quegli occhi lucidi, gonfi d'innocenza. Non gli disse altro, rinunciando al discorso che s'era preparato su come certe cose passano e col tempo fanno meno male, tanto sono solo fesserie che si dicono, e invece non è vero niente, non passa un accidente.
Ancora adesso, che da quel giorno tempo ne è passato tanto, il ricordo c'è ancora. Paolo s'è fatto uomo, di quelli che s'ostinano ad andare in barca a rubare qualcosa. La sera, quando il mare lascia fare, lo trovate in porto a sbarcare i pesci. A volte capita di vedergli sollevare lo sguardo verso la gente in banchina; chi conosce questa storia sa che sta ancora cercando la faccia bianca dell'Americano, uno in più tra la folla, la vita d'un uomo che gli incroci lo sguardo con la lieve carezza d'un grazie.

Giovanni Ciaravolo © Copyright 1998 Tutti i diritti riservati

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